sabato 16 gennaio 2021

Cuore di Strega 10 - La legge del tre

Da un po' di tempo non riesco più a scrivere. Sarà colpa dell'inverno, sarà che da mesi esco di casa il minimo indispensabile e quelle poche volte che lo faccio torno sfinita. Probabilmente sono sull'orlo della depressione, o magari ci sono già dentro con tutti e due i piedi, chissà. Fatto sta che da un paio di settimane mi ronza in testa l'idea per il quattordicesimo capitolo ma non riesco a mettermi seduta alla scrivania con la penna in mano. 

Vi chiedo di portare pazienza. Pochi o pochissimi che voi siate, miei cari lettori, so che vi siete affezionati a questo strano libro. Ma io sono in crisi. Non sono le idee che mi mancano, sono proprio le energie... e pensare che tra qualche mese, quando tutto questo sarà finito, probabilmente rimpiangerò di aver perso tempo a crogiolarmi in questo malessere... non so se riuscirò a perdonare me stessa per aver ceduto così all'esaurimento psico-fisico. Ho bisogno di voi. Scrivetemi, sgridatemi, parlate con me. Sono così stanca... mi sento così isolata e sola. 





Essere streghe non basta. Occorre agire da streghe.

Mi è capitato abbastanza spesso, chiacchierando del più e del meno con persone per lo più di sesso femminile, di sentire affermazioni del tipo: «Ho sempre avuto un sesto senso! Quando sta per accadere qualcosa, ho come delle premonizioni!» oppure: «Eh, io, in fondo in fondo, sono un po’ “streghetta”!»

“Streghetta”.

Sì, “streghetta” tra virgolette.

Ma io vi dico che, nel mondo delle streghe, le virgolette non esistono. Non si può essere “un po’” streghe: lo si è oppure no.

Però, come ogni altra persona, anche una strega può scegliere se abbracciare ciò che è, se vivere in sintonia con la propria natura, oppure seppellirla nel giardino dietro casa, come si fa con un cadavere, e vivere con una maschera sul volto per il resto dei suoi giorni.

Nonostante l’abbia descritta in modo truce, da parte mia non può esserci condanna né disprezzo per chi opera questa seconda scelta. Essere e vivere da strega non è affatto cosa semplice, nemmeno nel terzo millennio.

Ci sono stati dei momenti nella mia vita in cui anch’io ho preferito seppellire il cadavere.

Ma, dal fondo del mio giardino, di notte, sentivo una voce levarsi, chiamarmi; e, tornando laggiù, nessun cadavere giaceva nella terra nera: al suo posto era cresciuto un albero rigoglioso e verdeggiante.

L’anima trova sempre la via per riemergere alla luce.

 

La legge del tre

Agire da strega significa compiere magie: costruire talismani, preparare filtri magici, tessere incantesimi, danzare sotto la luna e interrogare Rune e Tarocchi.

Significa credere in divinità immanenti, strettamente avvinte alla Natura; immaginare un universo in cui ogni cosa è interconnessa e convincersi di avere dentro di sé una Forza capace di interferire con tali connessioni e piegarle al proprio volere, un Potere che si manifesta attraverso il Gesto e la Parola.

“Di Madre Terra io chiamo il Potere,

le mie radici a sostenere.

Le Forze Celesti io chiamo ora

che del mio cuore faccian dimora.

Volami attorno, Vento leggero

la mente libera da ogni pensiero;

acque di fonte, fresche cascate,

da rabbia ed ansia il mio cuore lavate.

Cerchio magico, cerchio potente,

io qui ti evoco con la mia mente:

il tuo confine disegno attorno,

lascio al di fuori l’umano mondo

e con gli Spiriti, se a loro piace,

siano l’Amore, la Gioia e la Pace.

Grande è il Potere che evoco in te;

la Madre e il Padre siano con me!”[1]

 

Fin dall’alba della civiltà, l’essere umano ha creduto che ciò fosse possibile: gli antichi Egizi ritenevano che gli dei avessero dei nomi segreti, conoscendo i quali li si sarebbe potuti costringere ad esaudire le preghiere dei mortali. Questa conoscenza e questo potere erano segreti ben custoditi dalla casta sacerdotale. A quei tempi si pensava che, con le giuste formule e scongiuri, un sacerdote avrebbe potuto addirittura impedire al sole di sorgere.

Questa idea, che conoscere il nome segreto di uno spirito o di un dio conferisse potere su di esso, è vecchia di millenni e, raccontata oggi, fa un po’ sorridere; eppure molte credenze ancora ben vive e socialmente accettate, si basano proprio su tale convinzione: “Non nominare il nome di Dio invano” recita uno dei Comandamenti dell’Antico Testamento.

Anche la proibizione di creare immagini che immortalassero le presunte sembianze di Dio è ben precedente alle religioni monoteiste e deriva dal pensiero magico secondo il quale si pensava, un tempo, che tramite l’immagine di qualcuno se ne potesse imprigionare l’essenza. Un’idea davvero sciocca, in verità.

Eppure, ancora oggi c’è gente che copre gli specchi nella casa dove un bimbo non è ancora stato battezzato, perché attraverso l’immagine riflessa non possa il Diavolo ghermirgli l’anima.

I primi ritratti fotografici impensierivano la gente semplice per gli stessi motivi.

E Oscar Wilde ci scrisse sopra un geniale romanzo[2].

La magia è dunque fatta di parole, gesti, immagini e convinzioni. Non troppo diversamente dalle religioni che, infatti, l’hanno sempre avversata come la più temibile delle antagoniste: forse perché, tra tutte le religioni è probabilmente la prima e la più radicata nel cuore dell’intera Umanità.

Una religione nata nelle caverne, inventata da esseri primitivi ma intelligenti che, con il primo barlume di consapevolezza avevano compreso di essere fragili e insignificanti di fronte alla Natura, ma non si rassegnavano alla propria debolezza.

È buffo pensare che la magia, la stessa praticata oggi da personaggi stravaganti e vagamente “hippy”, ambientalisti e spesso vegani, che professano il rispetto e la sacralità della Natura, sia nata in realtà dal desiderio di imporsi ad essa, di piegarla al proprio volere.

L’animale senziente che la inventò, nella notte dei tempi, decise un giorno di non voler soccombere alle leggi naturali e, per non morire di freddo, superò le proprie paure e domò il fuoco. Quella prima magia trasformò il branco in tribù, permise la sopravvivenza anche dei più deboli e creò una frattura insanabile tra l’essere umano ed il resto del Creato.

Tuttavia, funzionò assai bene: grazie ad essa l’animale uomo divenne la specie più resistente ed invasiva del nostro mondo. Oggi non esiste un solo angolo del pianeta Terra che non rechi segno del suo passaggio; non c’è oceano così profondo o ghiacciaio così estremo da non essere pervaso da microplastiche, mentre a migliaia di chilometri dalla superficie terrestre gravitano milioni di detriti artificiali, frammenti di vecchi razzi e satelliti in disuso.

Tutto ciò per via di un’idea soltanto: “non voglio morire oggi”.

Ecco cos’è la magia: un’idea. E l’idea è magia.

 

Naturalmente, quando io decisi di dedicarmi alla magia non sapevo nulla di tutte queste cose; «Voglio essere una Strega saggia e potente» era il mantra che mi ripetevo, il mio unico obiettivo: saggia, perché senza la saggezza il potere non è nulla; potente, perché volevo essere la padrona del mio destino.

Ma nessuno di noi è un’isola, nemmeno una Strega Solitaria[3] quale io decisi di essere, e il destino di ognuno è connesso a quello degli altri con legami più o meno forti a seconda della prossimità di chi ci circonda.

Così, quando mi imbattei nella Prima Legge delle Streghe, che afferma: “Fa ciò che vuoi”, presi quel dettame con le pinze perché modificare anche un solo piccolo tassello della realtà può portare a conseguenze imprevedibili; una strega dovrebbe avere sempre una buona dose di prudenza nella sua dispensa di ingredienti magici.

Per chi non ce l’ha, c’è la Seconda Legge:

Tutto ciò che farai ti tornerà indietro moltiplicato per tre

La Legge del Tre è un caposaldo per le streghe: tutto ciò che farai, nel bene o nel male, tornerà a te, ma ingigantito.

Tua è la volontà: fai ciò che vuoi.

Tua è la responsabilità.

La magia è potere, la magia è un dono.

Un dono pericoloso, che va amministrato con accortezza, con consapevolezza. Quella consapevolezza che, probabilmente, nei millenni è andata perdendosi.

I nostri antenati sapevano bene che il fuoco non è cosa con cui scherzare. Oggi trattiamo la nostra tecnologia con leggerezza e la diamo per scontata. Tutto è banale per le donne e gli uomini del Terzo Millennio, tutto è dovuto: dagli aeroplani agli antibiotici, dalla plastica agli smartphone. Non sanno nemmeno come funzionano ma non riescono ad immaginare la propria vita, senza.

Ed è forse per questo che tutto il nostro progresso ci si sta rivoltando contro.

Moltiplicato per tre.



[1] Formula di chiusura del Cerchio magico.

[2] Il ritratto di Dorian Gray, 1890-91

[3] Esistono diversi tipi di Streghe, a seconda delle Tradizioni e delle pratiche seguite. Le Streghe Solitarie sono quelle che preferiscono operare da sole, sganciate da qualsiasi tradizione o setta.

domenica 10 gennaio 2021

Cuore di Strega 9 - La strega del sonno

In questo nono capitolo mi fa piacere anche presentarvi la nuova copertina che ho messo su Wattpad. La bellissima modella non è una persona a caso, si chiama Mariana Vasic ed è una mia ex alunna. La foto è stata scattata dal suo ragazzo, Luca Magnaguagno. Io ho soltanto aggiunto i testi. Quando ho visto questa foto sul profilo Facebook di Mariana, me ne sono innamorata subito e ho pensato che fosse perfetta per "Cuore di Strega". Se un giorno (chissà), il libro venisse pubblicato per davvero, lo immagino con una copertina così.

Intanto ringrazio Mariana e Luca per avermi prestato questa splendida immagine!

Se volete andare a leggere l'ultimo capitolo di Cuore di Strega su Wattpad, vi lascio il link qui sotto... il 13° capitolo è stato particolarmente difficile da scrivere, mi piacerebbe sapere cosa ne pensate!

Capitolo 13 su Wattpad


La Strega del Sonno


L’amica a cui raccontavo, a trent’anni, i miei sogni via e-mail è un’artista e realizza illustrazioni per libri per bambini; una sera di tanti anni fa, al telefono, mi stava raccontando delle ultime illustrazioni che aveva realizzato: doveva partecipare ad una mostra il cui tema erano le Fate, così lei aveva scelto di illustrare le fate della fiaba “La Bella addormentata nel bosco”.

Per quei pochi che non se ne ricordano, la fiaba inizia con una festa di Battesimo. È nata una Principessa e tutte le Fate del regno vengono invitate a fare da madrine: ognuna di loro quindi, fa un dono alla bambina: la Bellezza, l’Intelligenza, la Bontà e così via… finché succede l’imprevisto: una delle Fate, che non era stata invitata, irrompe nel bel mezzo della festa e, per vendicarsi, lancia una maledizione.

A sedici anni la Principessa si pungerà il dito con il fuso e morirà.

«Così» lei mi disse «ho pensato di ritrarre tutte le mie amiche come Fate: una sarà la fata della Bellezza, un’altra quella dell’Intelligenza, eccetera… mi sono ispirata al carattere di ognuna di loro.»

«Caspita, che bella idea!» le risposi «davvero fantastica! Ed io, che Fata sono?»

«La Fata del Sonno»

«Ah…»

Ammetto che non feci subito la connessione tra quel ruolo ed i miei racconti sui sogni. La prima cosa che mi venne in mente fu che, nella nostra corrispondenza, l’incipit con cui iniziavo la maggioranza delle mie lettere era: “Oggi sono stanchissima…”; in quel periodo avevo l’impressione di non riuscire a dormire mai abbastanza.

«La Fata del Sonno è quella che salva la Principessa…» mi precisò lei.

 «… è quella che tramuta la maledizione, e trasforma la Morte in un Sonno che durerà cent’anni.»

Mi aveva dato il ruolo più importante e non me n’ero nemmeno resa conto.

Sono sempre stata una dormigliona e mi sono sentita spesso rimproverare per questo; una volta un mio professore delle scuole Medie fece un sondaggio in classe chiedendoci quante ore dormivamo al giorno: quando toccò a me rispondergli, trasecolò e mi fece brutalmente notare che se avessi continuato in quel modo avrei sprecato buona parte della mia vita dormendo, senza far nulla di utile. Ancora oggi, quando ci penso, mi sento in colpa per tutte le passeggiate mattutine che non faccio, per tutte le albe che mi perdo, per i compiti non corretti al pomeriggio (sì, quando non riesco a dormire abbastanza di notte oppure ho delle mattinate particolarmente impegnative al lavoro, dopo mangiato crollo sul divano).

Anche se sono consapevole che il mio fisico ha assoluto bisogno di quelle ore di sonno, anche se quando dormo ho una vita frenetica e interessante quasi come quella che ho da sveglia, anche se quando lavoro mi impegno al massimo, tanto da consumare ogni mia energia e sono ben cosciente che il dover essere produttivi a tutti i costi è il grande inganno di una società consumistica che sta dissipando le risorse del pianeta e sta portando l’intera umanità al collasso, io ancora mi sento in colpa quando dormo “troppo”.

Dai miei sogni ho tratto grandi insegnamenti, ma ancora non riesco a metterli in pratica del tutto. Del resto è dura, in questo millennio, essere una Strega del Sonno. A volte mi sembra che sia come dormire sui binari di una ferrovia, mentre un treno ad alta velocità sta arrivando.


sabato 26 dicembre 2020

Cuore di Strega 8 - Strade e cattedrali

 Non sono molti i miei lettori, ma qualcuno c'è. Queste poche persone che mi chiedono di poter leggere i prossimi capitoli, mi danno la forza di andare avanti con questo lavoro. Non è il mio mestiere, scrivere. Non ho idea se Cuore di Strega abbia le potenzialità e le caratteristiche di essere, un giorno, pubblicato. So soltanto che scriverlo, in questo preciso momento della mia vita, mi sta aiutando molto. Perciò, ecco a voi il capitolo 8 e, se siete più avanti con la lettura, vi lascio il link al capitolo 12, che ho appena postato su Wattpad.

In questi giorni sto lavorando al numero 13, che non è per nulla facile da scrivere. Spero di poterlo pubblicare entro la fine dell'anno. Buone Feste a tutti voi!

Cuore di Strega 12- Wattpad




Strade e cattedrali

Da questa attività imparai comunque moltissime cose interessanti su me stessa e su come funziona la mia mente: una delle prime è che l’inconscio sa proteggersi dalle intrusioni esterne. Non appena riuscivo ad afferrare il significato di un simbolo, infatti, quella parte del mio cervello deputata a fabbricare i sogni, tendeva a non utilizzarlo più.

Poi compresi che, se è vero che alcuni simboli sono archetipi universali, come sa bene chi studia psicologia, ce ne sono altri che sono ad uso esclusivo e personale: vale a dire che hanno un significato specifico per noi e noi soltanto. Può trattarsi di un luogo o di una situazione che abbiamo sperimentato nella nostra vita e che ha lasciato un particolare tipo di impronta nella nostra psiche, di una persona che ha suscitato in noi uno speciale sentimento o di impressione. Magari quando siamo svegli non ricordiamo affatto di quale sentimento si tratti, ma il nostro inconscio lo sa ed utilizza luoghi, persone e situazioni per tessere storie che possono avere un significato preciso oppure avere la funzione di sfogare ansie e frustrazioni che ci portiamo appresso e che, da svegli, teniamo ben nascoste anche a noi stessi.

Molti dei miei sogni sono ricorrenti, non tanto per gli eventi che vi si svolgono, quanto per gli ambienti e in paesaggi. È come se dentro di me, con il tempo, si fosse andata formando una geografia onirica, modellata sull’impronta dei luoghi reali in cui vivo, ma dalle proporzioni ingigantite e arricchita da particolari che aumentano, di anno in anno, in quantità e qualità.

Uno di questi ambienti, probabilmente quello radicato in me da più tempo, è quello della chiesa: la prima volta che la sognai, da bambina, era una piccola chiesa bianca, posta sulla sommità di una collina baciata dal sole. Le giravo attorno, desiderosa di entrarvi per vederne l’interno, ma non trovavo nessuna apertura. Solo sul retro, in basso, c’era una finestrella chiusa da una grata e io tentavo invano di scrutare al suo interno: tutto era buio e silenzioso.

Il sogno della chiesa tornò durante la mia adolescenza. L’edificio si era fatto più grande ma ancora non riuscivo a visitarne l’interno. In compenso, accanto vi era sorto un cimitero nel quale amavo passeggiare. In questi sogni c’era sempre il sole, un senso di pace e appartenenza; a volte provavo uno struggente sentimento di nostalgia.

Mano a mano che gli anni passano, chiesa e cimitero diventano sempre più grandi, solenni, monumentali ed elaborati. Le forme e i colori cambiano da un sogno all’altro, ma io sono consapevole che il luogo è sempre lo stesso perché ogni volta sento di esserci già stata e mi sento serena e a mio agio. Da semplice pieve di campagna, la chiesa che mi appare in sogno è ormai diventata una vera e propria cattedrale, nella quale posso entrare a mio piacimento, anche se talvolta alcuni ambienti mi rimangono preclusi. Cammino nelle sue vaste sale, coperte da volte a crociera sorrette da colonne e pilastri intarsiati di marmi colorati. Non vi si trovano lunghe navate, ma ambienti larghi, in penombra, affollati da gente in preghiera, nicchie, stanze più piccole, corridoi e scalinate. Ogni elemento è decorato in maniera sontuosa, vi si odono canti e musica d’organo. Spesso cerco di allontanarmi dalle zone più affollate e percorro i corridoi solitari, salgo scale a chiocciola, in esplorazione. Oppure esco e mi dirigo verso il cimitero, che quasi sempre si trova in una posizione sopraelevata rispetto alla cattedrale e per arrivarci occorre percorrere una tortuosa stradina in salita, affiancata da vecchi muri coperti di muschio. Là mi inoltro tra le tombe, adornate da statue, mosaici colorati o cancellate di ferro battuto. Non di rado, affacciandosi al muretto che lo circonda si gode di una vista meravigliosa sui tetti di cotto di un’antica città o su enormi giardini verdeggianti.

Un altro ambiente ricorrente nei miei sogni è il quartiere in cui abitavo con i miei genitori, oppure l’intero paese in cui sono vissuta per tutta la mia vita. Ogni cosa si trova più o meno dov’è nella realtà della veglia: il paese si stende in lunghezza all’interno di una valle percorsa da un torrente, affiancato dalle due strade principali, da una parte la provinciale e dall’altra la comunale che sbuca nella piazza del Municipio. Le due strade sono collegate, a intervalli più o meno regolari, da diversi ponti. Questa semplice mappa nella mia personale realtà onirica è dilatata e ricolma di elementi tanto fantasiosi che io stessa, sognando, me ne stupisco. Non sempre tali elementi si ripetono, alcuni li ho veduti una sola volta, ma erano di una bellezza tale che mi sono rimasti impressi nella memoria e avrei tanto voluto avere il pennello di Winsor McCay[1] o di Moebius[2] per poterli dipingere, una volta sveglia: palazzi in rilucente marmo bianco in bilico su ponti dello stesso materiale, gettati sulle sponde del grande fiume in cui la mia mente notturna trasforma il torrente che scorre nella valle; nere cattedrali gotiche dalle guglie altissime, con torri d’onice scalate da strette scale a chiocciola; mercati fitti di bancarelle multicolori degne di un bazar orientale, interi quartieri incastonati sui fianchi di ripide colline, giardini segreti nascosti dietro i muri delle case. E ancora, condomini trasformati in palazzi dalle forme eclettiche con bifore medievali per finestre e ascensori capaci di muoversi in orizzontale come in verticale, all’interno di residence labirintici.

Sulle colline che circondano la valle, le frazioni e le contrade del mio paese si trasformano in antichi borghi con archi e piazzette lastricate, collegate da strade a strapiombo su pareti di roccia che talvolta si aprono in grotte da cui fuoriescono sorgenti d’acqua calda o fredda.

Lungo quella che nella realtà è una provinciale polverosa percorsa da lunghe file di automobili e camion, nelle mie visioni oniriche si aprono da un lato osterie malfamate e scure botteghe di vecchi artigiani che fabbricano aghi, dall’altro, oltre il fiume, giace un quartiere semiabbandonato, coperto di rovi e ortiche, impossibile da raggiungere, tranne che per le fatiscenti barche di pescatori zingari.

Talvolta mi muovo più ad est, fuori dalla valle, verso la cittadina che si trova giù in pianura e quella stessa strada diventa lunghissima e teatro dei viaggi più strani e bizzarri. Molto spesso lunghi tratti si allagano costringendo tutti i personaggi del sogno ad abbandonare i propri veicoli e a proseguire a piedi, lottando contro il fango e la corrente. Altre volte il tragitto è interrotto dagli scavi di ruspe che estraggono dal sottosuolo gli scheletri di un’intera necropoli. Nei miei sogni ho percorso quella strada a piedi, in bicicletta, a cavallo, alla guida di camion o, recentemente, di un’auto sportiva con i pedali lontanissimi dai miei piedi. Ho affrontato grandine e tempeste e gelate e inondazioni.

Nella cittadina confinante con il mio paese, la viabilità è molto più contorta: a volte mi ci perdo, tra vicoli che si intersecano e che in alcune occasioni passano attraverso gli edifici. In una certa zona, poco distante dalla stazione degli autobus, solamente nei miei sogni purtroppo, si trova un negozio che vende esclusivamente cioccolata. Negli anni, da piccolo chiosco delle dimensioni di un’edicola, è andato via via ingrandendosi ed acquisendo vetrine e magazzini che sono un vero paradiso dei sensi: non soltanto vi si trovano cioccolatini, pasticcini e tavolette fatti con il cacao più ricercato e costoso, ma vere e proprie sculture di cioccolato, dalle forme più fantasiose ed elaborate, colorate con glasse dai mille invitanti colori. All’interno, un profumo delizioso mi avvolge ed io mi aggiro lentamente tra gli scaffali, osservando tutto con molta attenzione prima di scegliere cosa acquistare, perché i prezzi sono alle stelle! Un omino baffuto dallo sguardo sornione è il proprietario e spesso gli chiedo consigli sugli ultimi articoli arrivati in negozio. Lui mi fa assaggiare qualche frammento di dolci che gli sono arrivati da lontani paesi o da rinomate pasticcerie.

I miei sogni non sono tutti belli, naturalmente, ma tutti sono affollati di personaggi, di oggetti e di colori. Quando sono brutti riflettono le mie ansie, ma non faccio quasi mai dei veri e propri incubi: piuttosto mi ritrovo in situazioni confuse, in cui sono costretta a compiere azioni ripetitive che non finiscono mai, come preparare bagagli, o mettere in ordine una stanza che per quanto mi affanni rimane sempre sommersa dal disordine. Oppure sogno di trovarmi a scuola e di correre da un corridoio all’altro in cerca dell’aula in cui si trova la mia classe, ma invano; o ancora, di dannarmi a cercare di far lezione ad un gruppo di allievi completamente disinteressati a ciò che dico, di cercare di mettere una nota con una penna che non scrive o con un computer che non funziona. Da questi sogni mi sveglio stanca e nervosa, come se avessi realmente lavorato tutta la notte, anziché dormire.

La cosa interessante è che conosco quasi sempre da dove viene una certa immagine o una certa situazione onirica: le mie visioni sono come alberi che hanno radici profondamente ancorate nella parte più nascosta di me stessa: ma pur essendo nascosta, è pur sempre una parte di me e a me sola appartiene. Una strega sa distinguere un ricordo da un desiderio, un’ansia da una paura, sia che si manifestino ad occhi aperti o chiusi.

E ciò che ancora non conosce lo abbraccia, lo accoglie e lo conserva dentro di sé come un seme, attendendo che si manifesti come si attende il germoglio a primavera.

Perché il mistero racchiuso in ogni cuore è sacro, come una piccola chiesa bianca sulla sommità di una collina, che prima o poi si apre e diventa un’immensa cattedrale, se soltanto si ha la pazienza e il desiderio di guardare al suo interno.



[1] Winsor McCay (1869 – 1934) è stato un fumettista, animatore e illustratore statunitense, autore dei meravigliosi viaggi onirici di Little Nemo in Slumberland (1905), un fumetto che narra i sogni estremamente fantasiosi e colorati di un bambino di nome Nemo.

[2] Jean Giraud, noto con lo pseudonimo “Moebius” (1938 – 2012) è considerato uno dei maestri del fumetto e dell’illustrazione fantasy.


domenica 13 dicembre 2020

Cuore di Strega 7 - Premonizioni

 

SETTIMA  parte del libro che sto scrivendo. Se vi siete persi l'inizio, vi invito a leggere la storia dal principio, iniziando dalla prima parte, che potrete visualizzare cliccando sul link qui sotto:

Cuore di Strega 1

Se invece vi va di leggere su Wattpad, dove sono arrivata a pubblicare 11 parti, questo è il link:

Cuore di Strega su Wattpad



Premonizioni

Da quel momento, il mio rapporto con i sogni cambiò. Decisi che valeva la pena prenderli un po’ più sul serio, anche se la mia parte più razionale si ribellava all’idea di essere diventata una specie di profetessa onirica. Certo, l’episodio che mi era capitato aveva un ché di inquietante, ma poteva anche essere frutto del caso; perciò, decisi di fare qualcosa che apparentemente ha dell’assurdo: applicare il metodo scientifico ad un campo che di scientifico ha ben poco.

Iniziai a trascrivere i miei sogni, a studiarne i simboli e a rileggerli a distanza di giorni, mesi e anche anni, per capire se davvero ci fosse in essi qualche significato che non riguardasse soltanto me. A testimonianza di ciò, ho in casa diversi raccoglitori pieni zeppi di trascrizioni di sogni, molti dei quali estremamente dettagliati. Per un certo periodo, li raccontai via e-mail ad un’amica, che me ne dava una propria interpretazione: avere un punto di vista esterno sulle mie visioni oniriche mi aiutò molto, all’inizio, a districarmi in quella fitta rete di immagini simboliche: la casa, l’acqua, il cimitero, i bambini, il labirinto, il rospo, la gravidanza, erano soltanto alcuni degli elementi che comparivano nei miei sogni. Man mano che li trascrivevo li ricordavo sempre meglio e diventava sempre più impegnativo e complesso il mio lavoro di trascrizione, finché, dopo anni, mi resi conto che stavo passando più tempo ad osservare i miei sogni che a vivere la mia vita: fu questa constatazione a farmi smettere.

Tra i trenta e i trentatré anni, la mia vita si era fatta molto frenetica: dopo un periodo da disoccupata, avevo finalmente iniziato a lavorare, scoprendo che fare l’insegnante, il mestiere che avevo desiderato esercitare fin da bambina, era molto più impegnativo di quanto avessi creduto, specialmente perché ero alle prime armi e dovevo ancora costruirmi un metodo; nonostante questo, ne ero entusiasta e mi ci applicavo con tutte le mie forze. Era la vita privata a non soddisfarmi. Mi ero sempre immaginata a trent’anni sposata e con dei figli, ma in amore stavo collezionando un fallimento dopo l’altro. Ero molto stressata e i punti di riferimento che avevo avuto fino ad allora si stavano sgretolando uno ad uno. Avevo bisogno di capire chi ero e la mia convinzione era che la risposta stesse da qualche parte dentro di me.

Alla fine del mese di novembre del 2003, feci questi due sogni: nel primo, indossavo una bella collana di corallo, ma poi ne trovavo un'altra ancora più bella: aveva perle rosse e grigie e me la provavo, ma poi mi ritrovavo con addosso un'altra collana ancora e tutte e tre si ingarbugliavano attorno al mio collo e non riuscivo più a toglierle.

Nel successivo, vedevo mia zia con in mano un grande sacco di plastica trasparente, pieno di pesci rossi e grigi. Anche se il sacchetto era grande, i pesci erano troppi, alcuni erano morti, asfissiati nella calca, altri cadevano fuori dal sacchetto, per terra, e venivano calpestati.

Interpretai le perle rosse e grigie ed i pesci degli stessi colori come i miei impegni che si accavallavano e si ingarbugliavano fino a soffocarmi. L’anno successivo, nello stesso periodo, rifeci lo stesso sogno delle collane, quasi identico: ne indossavo troppe, finivano per stringermi il collo e non riuscivo più a levarmele.

Interpretare questo genere di sogni non era difficile: riguardavano i miei stati d’animo, le paure, i desideri oppure il mio stato di salute. Ma ero anche sempre all’erta per individuare un altro tipo di visioni notturne, più sfuggenti e rare: quelle che avrebbero potuto arrivare da qualche luogo “altro” e che, se fossi stata in grado di afferrarle, mi avrebbero svelato qualcosa che non stava all’interno di me stessa, ma al di fuori.

E un giorno arrivarono. Ma non mi portarono alcuna gioia.

Sognai per due volte nella stessa settimana un amico che non vedevo da tanto tempo; in entrambi i sogni lui non stava bene. In particolare mi rimase impresso che in uno dei due sogni lui aveva i capelli tutti bianchi e un’aria stanca, da vecchio. Trascrissi i due sogni come al solito, senza dare a questa cosa un peso eccessivo, finché, circa un mese dopo, mia madre si ricordò all’improvviso di averlo visto: era entrato nel nostro negozio per acquistare qualcosa e mi aveva mandata a salutare.

“Quanto tempo è passato?” le chiesi, allarmata.

“Mah, non so… qualche settimana, forse un mese. E, sai una cosa? Non stava per niente bene, secondo me. Aveva un’aria malata.”

Nei giorni successivi, misi in campo tutte le mie risorse per scoprire cosa gli fosse successo, senza dire a nessuno cosa avevo sognato. Riuscii a contattarlo per vie traverse e ci volle un po’ di tempo per venire a sapere che era effettivamente malato ed in maniera grave, per giunta.

Ci eravamo voluti molto bene, un tempo, ma erano anni che non ci sentivamo più. Non ci eravamo lasciati in buoni rapporti e mi ci volle molto tempo, tatto e pazienza per riallacciare un minimo contatto con lui. Quando ci riuscii, mi raccontò della sua malattia, di come si era manifestata e di come lui cercasse di tenerla nascosta, soprattutto sul lavoro: era ambizioso e sapeva bene che un male come quello gli avrebbe stroncato ogni possibilità di fare carriera. Provai a fargli notare che la vita e la salute valevano molto di più del successo lavorativo, ma lui era troppo testardo; del resto era stata proprio quella sua caratteristica ad allontanarci.

Qualche tempo dopo, si sposò. Negli anni continuai a vegliare su di lui da lontano, ci sentivamo per telefono, via mail o con qualche sms. La sua vita proseguiva, la sua salute peggiorava, lui continuava a fare viaggi all’estero per la ditta in cui lavorava, senza sosta. Ebbe un figlio, poi un altro. Era entrato in dialisi. Avevo smesso di cercare di convincerlo a riguardarsi. Se non lo faceva per sua moglie ed i suoi figli, non lo avrebbe certo fatto per me.

Mi tormentavo, mentre ancora continuavo a trascrivere sogni e a volte mi sembrava ancora di farne alcuni che mi mostravano la vita di qualcun altro; mi chiedevo a cosa servisse avere una capacità del genere se poi non ero in grado di mettere in guardia queste persone, di modificare la loro sorte.

Un giorno, lui mi chiamò dall’ospedale: era in attesa di un trapianto. Lo sentii preoccupato, spaventato. Cercai di consolarlo, gli promisi che lo avrei chiamato ogni sera. Furono giorni di ansia. Non potevo fare altro che pregare e aspettare e non riuscivo a fare a meno di pensarci. Finché, un giorno, mi richiamò e aveva un tono allegro e la sua voce era tornata squillante. Il trapianto era andato bene.

“Ho chiesto ai miei di portarmi il pc in ospedale” mi disse, “così posso riprendere a lavorare.”

A quelle parole mi salì una rabbia tremenda, assieme ad una delusione profonda: era stato ad un passo dalla morte e non aveva imparato nulla: in cima ai suoi pensieri c’era sempre il lavoro, essere produttivo era la sua unica preoccupazione, come se da questo dipendesse tutto il suo valore. Non mi servivano poteri magici per pronosticare che quell’atteggiamento lo avrebbe distrutto. Lo vedevo chiaramente, non era questione di se, ma di quando: e non volevo essere lì, nel momento in cui sarebbe successo. Non lo chiamai più, gli vietai di mandarmi ancora dei messaggi. Volevo solo dimenticarmi di lui e di quella sua testa dura.

Morì a poco più di quarant’anni, in una stanza d’albergo, durante l’ennesimo viaggio di lavoro all’estero. Piansi di rabbia, perché le lacrime di dolore le avevo versate dieci anni prima.

Non feci altri sogni premonitori, mai più.

martedì 8 dicembre 2020

Cuore di Strega 6 - Un bicchiere di vino

 SESTA  parte del libro che sto scrivendo. Se vi siete persi l'inizio, vi invito a leggere la storia dal principio, iniziando dalla prima parte, che potrete visualizzare cliccando sul link qui sotto:

Cuore di Strega 1

Se invece vi va di leggere su Wattpad, questo è il link:

Cuore di Strega su Wattpad




Un bicchiere di vino


E fu proprio un sogno fatto intorno ai trent’anni a dare inizio alla mia ricerca sulla stregoneria. Poco tempo prima era morto, giovanissimo, il marito di una delle mie cugine, ed io lo sognai. Premetto che, nella mia cattolica famiglia, i sogni sui defunti sono sempre stati presi molto sul serio: del resto, i cristiani credono nella vita dopo la morte, quindi è perfettamente coerente la loro convinzione che amici e parenti defunti appaiano loro in sogno nei momenti salienti della loro vita, in occasione di eventi particolari, soprattutto di passaggio: tra questi, il più significativo è quando qualcuno sta per varcare la soglia tra la vita e la morte.

Tuttavia, vorrei anche specificare che il dialogo con i defunti venne stigmatizzato dalla Cristianità come attività di stregoneria fin dai primi secoli; i Padri della Chiesa discussero vivacemente sul tema: tra i più famosi citerò S. Agostino (IV secolo d.C.) e S. Tommaso d’Aquino (XIII secolo d.C.) che associarono le conversazioni con le anime dei morti all’arte demoniaca della negromanzia e come tali le condannarono, specie se praticate dalle donne. Solo le visioni profetiche di santi, eremiti e uomini di fede erano ammissibili.

Qualche secolo dopo, furono giudicate ammissibili anche le apparizioni delle anime del Purgatorio ai propri congiunti, purché si trattasse di suppliche nei loro confronti di pagare salate indulgenze e messe di suffragio alla Chiesa, utili per accorciare il loro percorso di penitenza fino al Paradiso.

Ma di tutta questa parentesi storica, i miei parenti non sono a conoscenza.

Mio padre e mia madre, circa trent’anni fa, si svegliarono all’unisono all’alba del giorno in cui morì un loro caro amico, avvertendone chiaramente la presenza nella loro stanza da letto. Seppero in seguito di essersi destati nello stesso orario del suo trapasso, avvenuto in ospedale. Quando raccontano l’episodio, commentano soltanto, con semplicità: «L’è vegnù saludarne[1]»

A me però non era mai successo di fare sogni sui defunti e, oltretutto, non avevo avuto una gran confidenza con il marito di mia cugina: gli avevo sì parlato qualche volta in occasioni di battesimi o altre feste di famiglia, ma non vedevo proprio il motivo per il quale lui dovesse scegliere proprio me per recare un messaggio alla sua giovane e disperata vedova.

In quel periodo avevo iniziato con i primi tentativi di interpretazione dei miei sogni e lo stavo facendo nella maniera più classica, quella psicanalitica. Anche senza aver fatto studi specifici in merito, consideravo le immagini dei miei sogni come una serie di simboli creati dal mio inconscio che, letti nella maniera corretta, potevano chiarire i miei stati d’animo, le paure, le angosce nascoste, ed aiutarmi a superarle. Avevo imparato molto su me stessa in quel modo ed il più delle volte non facevo grande fatica a comprendere i significati delle mie visioni notturne, ma quel particolare sogno non riuscivo ad interpretarlo.

Nel mio sogno, ero a casa dei miei zii, nella grande sala da pranzo, affollata e rumorosa come sempre, dato che la loro è una famiglia numerosa. La TV era accesa, i miei cugini andavano e venivano, chiacchierando ad alta voce. Io ero seduta ad un lato del lungo tavolo e ad un tratto lo vedevo: lui era in piedi, dall’altro lato. D’improvviso mi resi conto di essere l’unica nella stanza ad accorgermi della sua presenza e mi ricordai che era morto. Sul tavolo c’era un bicchiere di vino bianco ed allungai la mano per prenderlo, ma lui mi disse: “Non berlo! Quello è per mia moglie.”

Al risveglio iniziai a considerare, una ad una, tutte le immagini del sogno: la stanza in cui mi trovavo, l’andirivieni di gente, il tavolo, il bicchiere di vino, ma quella serie di personaggi, oggetti e situazioni non mi dicevano nulla, non vi riconoscevo alcun simbolo riconducibile a me. Raccontai il sogno a mia madre e lei disse subito che avrei dovuto riferirlo a mia cugina, ma io mi rifiutai: non volevo causarle più dolore di quello che stava sicuramente provando, farla arrovellare su significati che non c’erano. Così, provai un fortissimo imbarazzo e rabbia verso mia madre quando, alcuni giorni dopo, facendole visita, le disse diretta: “Mara ha sognato tuo marito.” Ma, fortunatamente, non fui costretta a raccontarle il sogno, perché lei, con voce stanca e senza nemmeno guardarmi, rispose: “Le avrà detto che dovrei bere vino.”



[1] “è venuto a salutarci”

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