sabato 26 dicembre 2020

Cuore di Strega 8 - Strade e cattedrali

 Non sono molti i miei lettori, ma qualcuno c'è. Queste poche persone che mi chiedono di poter leggere i prossimi capitoli, mi danno la forza di andare avanti con questo lavoro. Non è il mio mestiere, scrivere. Non ho idea se Cuore di Strega abbia le potenzialità e le caratteristiche di essere, un giorno, pubblicato. So soltanto che scriverlo, in questo preciso momento della mia vita, mi sta aiutando molto. Perciò, ecco a voi il capitolo 8 e, se siete più avanti con la lettura, vi lascio il link al capitolo 12, che ho appena postato su Wattpad.

In questi giorni sto lavorando al numero 13, che non è per nulla facile da scrivere. Spero di poterlo pubblicare entro la fine dell'anno. Buone Feste a tutti voi!

Cuore di Strega 12- Wattpad




Strade e cattedrali

Da questa attività imparai comunque moltissime cose interessanti su me stessa e su come funziona la mia mente: una delle prime è che l’inconscio sa proteggersi dalle intrusioni esterne. Non appena riuscivo ad afferrare il significato di un simbolo, infatti, quella parte del mio cervello deputata a fabbricare i sogni, tendeva a non utilizzarlo più.

Poi compresi che, se è vero che alcuni simboli sono archetipi universali, come sa bene chi studia psicologia, ce ne sono altri che sono ad uso esclusivo e personale: vale a dire che hanno un significato specifico per noi e noi soltanto. Può trattarsi di un luogo o di una situazione che abbiamo sperimentato nella nostra vita e che ha lasciato un particolare tipo di impronta nella nostra psiche, di una persona che ha suscitato in noi uno speciale sentimento o di impressione. Magari quando siamo svegli non ricordiamo affatto di quale sentimento si tratti, ma il nostro inconscio lo sa ed utilizza luoghi, persone e situazioni per tessere storie che possono avere un significato preciso oppure avere la funzione di sfogare ansie e frustrazioni che ci portiamo appresso e che, da svegli, teniamo ben nascoste anche a noi stessi.

Molti dei miei sogni sono ricorrenti, non tanto per gli eventi che vi si svolgono, quanto per gli ambienti e in paesaggi. È come se dentro di me, con il tempo, si fosse andata formando una geografia onirica, modellata sull’impronta dei luoghi reali in cui vivo, ma dalle proporzioni ingigantite e arricchita da particolari che aumentano, di anno in anno, in quantità e qualità.

Uno di questi ambienti, probabilmente quello radicato in me da più tempo, è quello della chiesa: la prima volta che la sognai, da bambina, era una piccola chiesa bianca, posta sulla sommità di una collina baciata dal sole. Le giravo attorno, desiderosa di entrarvi per vederne l’interno, ma non trovavo nessuna apertura. Solo sul retro, in basso, c’era una finestrella chiusa da una grata e io tentavo invano di scrutare al suo interno: tutto era buio e silenzioso.

Il sogno della chiesa tornò durante la mia adolescenza. L’edificio si era fatto più grande ma ancora non riuscivo a visitarne l’interno. In compenso, accanto vi era sorto un cimitero nel quale amavo passeggiare. In questi sogni c’era sempre il sole, un senso di pace e appartenenza; a volte provavo uno struggente sentimento di nostalgia.

Mano a mano che gli anni passano, chiesa e cimitero diventano sempre più grandi, solenni, monumentali ed elaborati. Le forme e i colori cambiano da un sogno all’altro, ma io sono consapevole che il luogo è sempre lo stesso perché ogni volta sento di esserci già stata e mi sento serena e a mio agio. Da semplice pieve di campagna, la chiesa che mi appare in sogno è ormai diventata una vera e propria cattedrale, nella quale posso entrare a mio piacimento, anche se talvolta alcuni ambienti mi rimangono preclusi. Cammino nelle sue vaste sale, coperte da volte a crociera sorrette da colonne e pilastri intarsiati di marmi colorati. Non vi si trovano lunghe navate, ma ambienti larghi, in penombra, affollati da gente in preghiera, nicchie, stanze più piccole, corridoi e scalinate. Ogni elemento è decorato in maniera sontuosa, vi si odono canti e musica d’organo. Spesso cerco di allontanarmi dalle zone più affollate e percorro i corridoi solitari, salgo scale a chiocciola, in esplorazione. Oppure esco e mi dirigo verso il cimitero, che quasi sempre si trova in una posizione sopraelevata rispetto alla cattedrale e per arrivarci occorre percorrere una tortuosa stradina in salita, affiancata da vecchi muri coperti di muschio. Là mi inoltro tra le tombe, adornate da statue, mosaici colorati o cancellate di ferro battuto. Non di rado, affacciandosi al muretto che lo circonda si gode di una vista meravigliosa sui tetti di cotto di un’antica città o su enormi giardini verdeggianti.

Un altro ambiente ricorrente nei miei sogni è il quartiere in cui abitavo con i miei genitori, oppure l’intero paese in cui sono vissuta per tutta la mia vita. Ogni cosa si trova più o meno dov’è nella realtà della veglia: il paese si stende in lunghezza all’interno di una valle percorsa da un torrente, affiancato dalle due strade principali, da una parte la provinciale e dall’altra la comunale che sbuca nella piazza del Municipio. Le due strade sono collegate, a intervalli più o meno regolari, da diversi ponti. Questa semplice mappa nella mia personale realtà onirica è dilatata e ricolma di elementi tanto fantasiosi che io stessa, sognando, me ne stupisco. Non sempre tali elementi si ripetono, alcuni li ho veduti una sola volta, ma erano di una bellezza tale che mi sono rimasti impressi nella memoria e avrei tanto voluto avere il pennello di Winsor McCay[1] o di Moebius[2] per poterli dipingere, una volta sveglia: palazzi in rilucente marmo bianco in bilico su ponti dello stesso materiale, gettati sulle sponde del grande fiume in cui la mia mente notturna trasforma il torrente che scorre nella valle; nere cattedrali gotiche dalle guglie altissime, con torri d’onice scalate da strette scale a chiocciola; mercati fitti di bancarelle multicolori degne di un bazar orientale, interi quartieri incastonati sui fianchi di ripide colline, giardini segreti nascosti dietro i muri delle case. E ancora, condomini trasformati in palazzi dalle forme eclettiche con bifore medievali per finestre e ascensori capaci di muoversi in orizzontale come in verticale, all’interno di residence labirintici.

Sulle colline che circondano la valle, le frazioni e le contrade del mio paese si trasformano in antichi borghi con archi e piazzette lastricate, collegate da strade a strapiombo su pareti di roccia che talvolta si aprono in grotte da cui fuoriescono sorgenti d’acqua calda o fredda.

Lungo quella che nella realtà è una provinciale polverosa percorsa da lunghe file di automobili e camion, nelle mie visioni oniriche si aprono da un lato osterie malfamate e scure botteghe di vecchi artigiani che fabbricano aghi, dall’altro, oltre il fiume, giace un quartiere semiabbandonato, coperto di rovi e ortiche, impossibile da raggiungere, tranne che per le fatiscenti barche di pescatori zingari.

Talvolta mi muovo più ad est, fuori dalla valle, verso la cittadina che si trova giù in pianura e quella stessa strada diventa lunghissima e teatro dei viaggi più strani e bizzarri. Molto spesso lunghi tratti si allagano costringendo tutti i personaggi del sogno ad abbandonare i propri veicoli e a proseguire a piedi, lottando contro il fango e la corrente. Altre volte il tragitto è interrotto dagli scavi di ruspe che estraggono dal sottosuolo gli scheletri di un’intera necropoli. Nei miei sogni ho percorso quella strada a piedi, in bicicletta, a cavallo, alla guida di camion o, recentemente, di un’auto sportiva con i pedali lontanissimi dai miei piedi. Ho affrontato grandine e tempeste e gelate e inondazioni.

Nella cittadina confinante con il mio paese, la viabilità è molto più contorta: a volte mi ci perdo, tra vicoli che si intersecano e che in alcune occasioni passano attraverso gli edifici. In una certa zona, poco distante dalla stazione degli autobus, solamente nei miei sogni purtroppo, si trova un negozio che vende esclusivamente cioccolata. Negli anni, da piccolo chiosco delle dimensioni di un’edicola, è andato via via ingrandendosi ed acquisendo vetrine e magazzini che sono un vero paradiso dei sensi: non soltanto vi si trovano cioccolatini, pasticcini e tavolette fatti con il cacao più ricercato e costoso, ma vere e proprie sculture di cioccolato, dalle forme più fantasiose ed elaborate, colorate con glasse dai mille invitanti colori. All’interno, un profumo delizioso mi avvolge ed io mi aggiro lentamente tra gli scaffali, osservando tutto con molta attenzione prima di scegliere cosa acquistare, perché i prezzi sono alle stelle! Un omino baffuto dallo sguardo sornione è il proprietario e spesso gli chiedo consigli sugli ultimi articoli arrivati in negozio. Lui mi fa assaggiare qualche frammento di dolci che gli sono arrivati da lontani paesi o da rinomate pasticcerie.

I miei sogni non sono tutti belli, naturalmente, ma tutti sono affollati di personaggi, di oggetti e di colori. Quando sono brutti riflettono le mie ansie, ma non faccio quasi mai dei veri e propri incubi: piuttosto mi ritrovo in situazioni confuse, in cui sono costretta a compiere azioni ripetitive che non finiscono mai, come preparare bagagli, o mettere in ordine una stanza che per quanto mi affanni rimane sempre sommersa dal disordine. Oppure sogno di trovarmi a scuola e di correre da un corridoio all’altro in cerca dell’aula in cui si trova la mia classe, ma invano; o ancora, di dannarmi a cercare di far lezione ad un gruppo di allievi completamente disinteressati a ciò che dico, di cercare di mettere una nota con una penna che non scrive o con un computer che non funziona. Da questi sogni mi sveglio stanca e nervosa, come se avessi realmente lavorato tutta la notte, anziché dormire.

La cosa interessante è che conosco quasi sempre da dove viene una certa immagine o una certa situazione onirica: le mie visioni sono come alberi che hanno radici profondamente ancorate nella parte più nascosta di me stessa: ma pur essendo nascosta, è pur sempre una parte di me e a me sola appartiene. Una strega sa distinguere un ricordo da un desiderio, un’ansia da una paura, sia che si manifestino ad occhi aperti o chiusi.

E ciò che ancora non conosce lo abbraccia, lo accoglie e lo conserva dentro di sé come un seme, attendendo che si manifesti come si attende il germoglio a primavera.

Perché il mistero racchiuso in ogni cuore è sacro, come una piccola chiesa bianca sulla sommità di una collina, che prima o poi si apre e diventa un’immensa cattedrale, se soltanto si ha la pazienza e il desiderio di guardare al suo interno.



[1] Winsor McCay (1869 – 1934) è stato un fumettista, animatore e illustratore statunitense, autore dei meravigliosi viaggi onirici di Little Nemo in Slumberland (1905), un fumetto che narra i sogni estremamente fantasiosi e colorati di un bambino di nome Nemo.

[2] Jean Giraud, noto con lo pseudonimo “Moebius” (1938 – 2012) è considerato uno dei maestri del fumetto e dell’illustrazione fantasy.


domenica 13 dicembre 2020

Cuore di Strega 7 - Premonizioni

 

SETTIMA  parte del libro che sto scrivendo. Se vi siete persi l'inizio, vi invito a leggere la storia dal principio, iniziando dalla prima parte, che potrete visualizzare cliccando sul link qui sotto:

Cuore di Strega 1

Se invece vi va di leggere su Wattpad, dove sono arrivata a pubblicare 11 parti, questo è il link:

Cuore di Strega su Wattpad



Premonizioni

Da quel momento, il mio rapporto con i sogni cambiò. Decisi che valeva la pena prenderli un po’ più sul serio, anche se la mia parte più razionale si ribellava all’idea di essere diventata una specie di profetessa onirica. Certo, l’episodio che mi era capitato aveva un ché di inquietante, ma poteva anche essere frutto del caso; perciò, decisi di fare qualcosa che apparentemente ha dell’assurdo: applicare il metodo scientifico ad un campo che di scientifico ha ben poco.

Iniziai a trascrivere i miei sogni, a studiarne i simboli e a rileggerli a distanza di giorni, mesi e anche anni, per capire se davvero ci fosse in essi qualche significato che non riguardasse soltanto me. A testimonianza di ciò, ho in casa diversi raccoglitori pieni zeppi di trascrizioni di sogni, molti dei quali estremamente dettagliati. Per un certo periodo, li raccontai via e-mail ad un’amica, che me ne dava una propria interpretazione: avere un punto di vista esterno sulle mie visioni oniriche mi aiutò molto, all’inizio, a districarmi in quella fitta rete di immagini simboliche: la casa, l’acqua, il cimitero, i bambini, il labirinto, il rospo, la gravidanza, erano soltanto alcuni degli elementi che comparivano nei miei sogni. Man mano che li trascrivevo li ricordavo sempre meglio e diventava sempre più impegnativo e complesso il mio lavoro di trascrizione, finché, dopo anni, mi resi conto che stavo passando più tempo ad osservare i miei sogni che a vivere la mia vita: fu questa constatazione a farmi smettere.

Tra i trenta e i trentatré anni, la mia vita si era fatta molto frenetica: dopo un periodo da disoccupata, avevo finalmente iniziato a lavorare, scoprendo che fare l’insegnante, il mestiere che avevo desiderato esercitare fin da bambina, era molto più impegnativo di quanto avessi creduto, specialmente perché ero alle prime armi e dovevo ancora costruirmi un metodo; nonostante questo, ne ero entusiasta e mi ci applicavo con tutte le mie forze. Era la vita privata a non soddisfarmi. Mi ero sempre immaginata a trent’anni sposata e con dei figli, ma in amore stavo collezionando un fallimento dopo l’altro. Ero molto stressata e i punti di riferimento che avevo avuto fino ad allora si stavano sgretolando uno ad uno. Avevo bisogno di capire chi ero e la mia convinzione era che la risposta stesse da qualche parte dentro di me.

Alla fine del mese di novembre del 2003, feci questi due sogni: nel primo, indossavo una bella collana di corallo, ma poi ne trovavo un'altra ancora più bella: aveva perle rosse e grigie e me la provavo, ma poi mi ritrovavo con addosso un'altra collana ancora e tutte e tre si ingarbugliavano attorno al mio collo e non riuscivo più a toglierle.

Nel successivo, vedevo mia zia con in mano un grande sacco di plastica trasparente, pieno di pesci rossi e grigi. Anche se il sacchetto era grande, i pesci erano troppi, alcuni erano morti, asfissiati nella calca, altri cadevano fuori dal sacchetto, per terra, e venivano calpestati.

Interpretai le perle rosse e grigie ed i pesci degli stessi colori come i miei impegni che si accavallavano e si ingarbugliavano fino a soffocarmi. L’anno successivo, nello stesso periodo, rifeci lo stesso sogno delle collane, quasi identico: ne indossavo troppe, finivano per stringermi il collo e non riuscivo più a levarmele.

Interpretare questo genere di sogni non era difficile: riguardavano i miei stati d’animo, le paure, i desideri oppure il mio stato di salute. Ma ero anche sempre all’erta per individuare un altro tipo di visioni notturne, più sfuggenti e rare: quelle che avrebbero potuto arrivare da qualche luogo “altro” e che, se fossi stata in grado di afferrarle, mi avrebbero svelato qualcosa che non stava all’interno di me stessa, ma al di fuori.

E un giorno arrivarono. Ma non mi portarono alcuna gioia.

Sognai per due volte nella stessa settimana un amico che non vedevo da tanto tempo; in entrambi i sogni lui non stava bene. In particolare mi rimase impresso che in uno dei due sogni lui aveva i capelli tutti bianchi e un’aria stanca, da vecchio. Trascrissi i due sogni come al solito, senza dare a questa cosa un peso eccessivo, finché, circa un mese dopo, mia madre si ricordò all’improvviso di averlo visto: era entrato nel nostro negozio per acquistare qualcosa e mi aveva mandata a salutare.

“Quanto tempo è passato?” le chiesi, allarmata.

“Mah, non so… qualche settimana, forse un mese. E, sai una cosa? Non stava per niente bene, secondo me. Aveva un’aria malata.”

Nei giorni successivi, misi in campo tutte le mie risorse per scoprire cosa gli fosse successo, senza dire a nessuno cosa avevo sognato. Riuscii a contattarlo per vie traverse e ci volle un po’ di tempo per venire a sapere che era effettivamente malato ed in maniera grave, per giunta.

Ci eravamo voluti molto bene, un tempo, ma erano anni che non ci sentivamo più. Non ci eravamo lasciati in buoni rapporti e mi ci volle molto tempo, tatto e pazienza per riallacciare un minimo contatto con lui. Quando ci riuscii, mi raccontò della sua malattia, di come si era manifestata e di come lui cercasse di tenerla nascosta, soprattutto sul lavoro: era ambizioso e sapeva bene che un male come quello gli avrebbe stroncato ogni possibilità di fare carriera. Provai a fargli notare che la vita e la salute valevano molto di più del successo lavorativo, ma lui era troppo testardo; del resto era stata proprio quella sua caratteristica ad allontanarci.

Qualche tempo dopo, si sposò. Negli anni continuai a vegliare su di lui da lontano, ci sentivamo per telefono, via mail o con qualche sms. La sua vita proseguiva, la sua salute peggiorava, lui continuava a fare viaggi all’estero per la ditta in cui lavorava, senza sosta. Ebbe un figlio, poi un altro. Era entrato in dialisi. Avevo smesso di cercare di convincerlo a riguardarsi. Se non lo faceva per sua moglie ed i suoi figli, non lo avrebbe certo fatto per me.

Mi tormentavo, mentre ancora continuavo a trascrivere sogni e a volte mi sembrava ancora di farne alcuni che mi mostravano la vita di qualcun altro; mi chiedevo a cosa servisse avere una capacità del genere se poi non ero in grado di mettere in guardia queste persone, di modificare la loro sorte.

Un giorno, lui mi chiamò dall’ospedale: era in attesa di un trapianto. Lo sentii preoccupato, spaventato. Cercai di consolarlo, gli promisi che lo avrei chiamato ogni sera. Furono giorni di ansia. Non potevo fare altro che pregare e aspettare e non riuscivo a fare a meno di pensarci. Finché, un giorno, mi richiamò e aveva un tono allegro e la sua voce era tornata squillante. Il trapianto era andato bene.

“Ho chiesto ai miei di portarmi il pc in ospedale” mi disse, “così posso riprendere a lavorare.”

A quelle parole mi salì una rabbia tremenda, assieme ad una delusione profonda: era stato ad un passo dalla morte e non aveva imparato nulla: in cima ai suoi pensieri c’era sempre il lavoro, essere produttivo era la sua unica preoccupazione, come se da questo dipendesse tutto il suo valore. Non mi servivano poteri magici per pronosticare che quell’atteggiamento lo avrebbe distrutto. Lo vedevo chiaramente, non era questione di se, ma di quando: e non volevo essere lì, nel momento in cui sarebbe successo. Non lo chiamai più, gli vietai di mandarmi ancora dei messaggi. Volevo solo dimenticarmi di lui e di quella sua testa dura.

Morì a poco più di quarant’anni, in una stanza d’albergo, durante l’ennesimo viaggio di lavoro all’estero. Piansi di rabbia, perché le lacrime di dolore le avevo versate dieci anni prima.

Non feci altri sogni premonitori, mai più.

martedì 8 dicembre 2020

Cuore di Strega 6 - Un bicchiere di vino

 SESTA  parte del libro che sto scrivendo. Se vi siete persi l'inizio, vi invito a leggere la storia dal principio, iniziando dalla prima parte, che potrete visualizzare cliccando sul link qui sotto:

Cuore di Strega 1

Se invece vi va di leggere su Wattpad, questo è il link:

Cuore di Strega su Wattpad




Un bicchiere di vino


E fu proprio un sogno fatto intorno ai trent’anni a dare inizio alla mia ricerca sulla stregoneria. Poco tempo prima era morto, giovanissimo, il marito di una delle mie cugine, ed io lo sognai. Premetto che, nella mia cattolica famiglia, i sogni sui defunti sono sempre stati presi molto sul serio: del resto, i cristiani credono nella vita dopo la morte, quindi è perfettamente coerente la loro convinzione che amici e parenti defunti appaiano loro in sogno nei momenti salienti della loro vita, in occasione di eventi particolari, soprattutto di passaggio: tra questi, il più significativo è quando qualcuno sta per varcare la soglia tra la vita e la morte.

Tuttavia, vorrei anche specificare che il dialogo con i defunti venne stigmatizzato dalla Cristianità come attività di stregoneria fin dai primi secoli; i Padri della Chiesa discussero vivacemente sul tema: tra i più famosi citerò S. Agostino (IV secolo d.C.) e S. Tommaso d’Aquino (XIII secolo d.C.) che associarono le conversazioni con le anime dei morti all’arte demoniaca della negromanzia e come tali le condannarono, specie se praticate dalle donne. Solo le visioni profetiche di santi, eremiti e uomini di fede erano ammissibili.

Qualche secolo dopo, furono giudicate ammissibili anche le apparizioni delle anime del Purgatorio ai propri congiunti, purché si trattasse di suppliche nei loro confronti di pagare salate indulgenze e messe di suffragio alla Chiesa, utili per accorciare il loro percorso di penitenza fino al Paradiso.

Ma di tutta questa parentesi storica, i miei parenti non sono a conoscenza.

Mio padre e mia madre, circa trent’anni fa, si svegliarono all’unisono all’alba del giorno in cui morì un loro caro amico, avvertendone chiaramente la presenza nella loro stanza da letto. Seppero in seguito di essersi destati nello stesso orario del suo trapasso, avvenuto in ospedale. Quando raccontano l’episodio, commentano soltanto, con semplicità: «L’è vegnù saludarne[1]»

A me però non era mai successo di fare sogni sui defunti e, oltretutto, non avevo avuto una gran confidenza con il marito di mia cugina: gli avevo sì parlato qualche volta in occasioni di battesimi o altre feste di famiglia, ma non vedevo proprio il motivo per il quale lui dovesse scegliere proprio me per recare un messaggio alla sua giovane e disperata vedova.

In quel periodo avevo iniziato con i primi tentativi di interpretazione dei miei sogni e lo stavo facendo nella maniera più classica, quella psicanalitica. Anche senza aver fatto studi specifici in merito, consideravo le immagini dei miei sogni come una serie di simboli creati dal mio inconscio che, letti nella maniera corretta, potevano chiarire i miei stati d’animo, le paure, le angosce nascoste, ed aiutarmi a superarle. Avevo imparato molto su me stessa in quel modo ed il più delle volte non facevo grande fatica a comprendere i significati delle mie visioni notturne, ma quel particolare sogno non riuscivo ad interpretarlo.

Nel mio sogno, ero a casa dei miei zii, nella grande sala da pranzo, affollata e rumorosa come sempre, dato che la loro è una famiglia numerosa. La TV era accesa, i miei cugini andavano e venivano, chiacchierando ad alta voce. Io ero seduta ad un lato del lungo tavolo e ad un tratto lo vedevo: lui era in piedi, dall’altro lato. D’improvviso mi resi conto di essere l’unica nella stanza ad accorgermi della sua presenza e mi ricordai che era morto. Sul tavolo c’era un bicchiere di vino bianco ed allungai la mano per prenderlo, ma lui mi disse: “Non berlo! Quello è per mia moglie.”

Al risveglio iniziai a considerare, una ad una, tutte le immagini del sogno: la stanza in cui mi trovavo, l’andirivieni di gente, il tavolo, il bicchiere di vino, ma quella serie di personaggi, oggetti e situazioni non mi dicevano nulla, non vi riconoscevo alcun simbolo riconducibile a me. Raccontai il sogno a mia madre e lei disse subito che avrei dovuto riferirlo a mia cugina, ma io mi rifiutai: non volevo causarle più dolore di quello che stava sicuramente provando, farla arrovellare su significati che non c’erano. Così, provai un fortissimo imbarazzo e rabbia verso mia madre quando, alcuni giorni dopo, facendole visita, le disse diretta: “Mara ha sognato tuo marito.” Ma, fortunatamente, non fui costretta a raccontarle il sogno, perché lei, con voce stanca e senza nemmeno guardarmi, rispose: “Le avrà detto che dovrei bere vino.”



[1] “è venuto a salutarci”

mercoledì 2 dicembre 2020

CUORE DI STREGA 5 - Persa nel buio

Quinta parte di Cuore di Strega. So che sto andando a rilento, ma scrivere non è il mio mestiere ed ogni parte di questo libro mi sta prendendo molte energie e tempo.

In realtà, su Wattpad sono più avanti (ho pubblicato 10 parti, mentre qui sono alla quinta), perciò, se volete leggere qualcosa in più, vi lascio il link, qui sotto. Vi devo avvertire però, che per leggere su quella piattaforma è necessario fare l'iscrizione e se leggete da smartphone dovete per forza scaricarvi l'app. Tuttavia si tratta di un'applicazione interessante perché permette di lasciare dei like (stelline) e di comunicare con l'autrice lasciando dei commenti; in realtà i commenti me li potete lasciare anche qui e se vorrete darmi un vostro parere o fare un'osservazione o una critica costruttiva, ne avrei un grande piacere.

Cuore di Strega su Wattpad




Persa nel buio

 

Dalla nascita fino a circa due anni, a detta dei miei genitori, ho dormito pochissimo, ma in seguito ho avuto modo di rifarmi alla grande e di instaurare un rapporto particolare con il mondo dei sogni: conservo alcuni ricordi di sogni fatti tra i tre e i cinque anni: o meglio, di due incubi.

Premetto che quando ero molto piccola, fino ai 3 o 4 anni, soffrivo di sonnambulismo e i miei genitori impararono a loro, anzi, a mie spese che non è il caso di svegliare un sonnambulo, perché si rischia di fargli venire delle serie crisi di nervi, con urla disumane e tremori. Questa premessa è necessaria perché io ricordo quegli incubi non come dei sogni, ma come fatti realmente accaduti e può essere che siano entrambe le cose assieme.

Nel primo, ero nel mio letto e sentivo dei passi che si avvicinavano: non so come, ma sapevo che era il Diavolo che voleva venirmi a prendere. Ero inerte e terrorizzata mentre sentivo quella presenza accanto a me, invisibile eppure solida, concreta, come quando, ad occhi chiusi, avvertiamo che qualcuno di silenzioso e immobile si trova proprio accanto a noi, oppure quando sentiamo come una puntura di spillo sul collo, uno sguardo alle nostre spalle e, voltandoci all’improvviso, eccolo, è lì.

Forse si trattava solamente di uno dei miei genitori o di mia nonna che, magari alzatasi di notte per andare al bagno, si era fermata un momento al mio capezzale per controllarmi il respiro. Ma, nel dormiveglia, io avevo avvertito quella presenza come maligna, ne ero stata terrorizzata a tal segno da ricordare quel sogno per tutta la vita: il batticuore, la goccia di sudore che mi scendeva sul collo, il senso di impotenza e di paralisi. Forse, un retaggio antico: l’istinto del cucciolo che si immobilizza all’avvicinarsi di un predatore, un ricordo ancestrale fissato nel DNA.

Il secondo sogno è più articolato e solo di recente l’ho riclassificato da “ricordo di un fatto” a “ricordo di un sogno”. Le sensazioni ad esso legate sono talmente vivide che non potrei giurare su cosa sia realmente accaduto: l’unica cosa di cui sono certa è il profondo dolore che mi causò allora, la cui eco lontana mi ferisce ancora oggi.

Mi alzavo dal letto, anzi, mi calavo giù, tanto ero piccina, in piena notte, non so per fare cosa. Un passo dopo l’altro, mi allontanavo dalla camera, orientandomi con le mani tese, toccando le superfici dei mobili, gli stipiti delle porte… quando, all’improvviso, rimasi priva di ogni appiglio e, nel buio assoluto, persi completamente l’orientamento. Fu come se le tenebre si dilatassero attorno a me.

Mi sedetti per terra, provai a muovermi carponi, cercando la superficie di un muro, lo spigolo di un mobile, inutilmente. Là dove credevo di trovare la gamba di un tavolo, l’angolo di una credenza, non c’era nulla: mi ero smarrita a casa mia, come se mi trovassi in un deserto o in un universo parallelo, completamente vuoto.

Disperata, mi misi a piangere, a chiamare la mamma… e da un punto non troppo lontano eppure irraggiungibile, ne udii la voce. Mi aveva sentita, si era svegliata! Ero salva!

Ma la sensazione di sollievo durò meno di un battito di cuore perché, subito, si aggiunse un’altra voce, quella di mio padre, che diceva: “Non alzarti, lascia che pianga.”

Fino a qui non so se il mio fosse solo un incubo o, in preda ad un episodio di sonnambulismo io mi fossi veramente ritrovata a vagare per casa, ma le parole di mio padre credo siano un ricordo vero: la reazione di un adulto assonnato, che il giorno dopo deve andare al lavoro e che è stanco dei continui pianti della figlia piccola.

Io, però, ne fui completamente devastata. Mi sentii abbandonata, rifiutata, una naufraga in un mare piatto, nero, senza fine. Sperimentai l’angoscia della più totale solitudine e per la prima volta nella mia vita, il mio cuore si spezzò.

Di quella prima volta conservo ancora la cicatrice.


sabato 28 novembre 2020

CUORE DI STREGA 4 - Sogni

 

QUARTA parte del libro che sto scrivendo. Se vi siete persi l'inizio, vi invito a leggere la storia dal principio, iniziando dalla prima parte, che potrete visualizzare cliccando sul link qui sotto:

Cuore di Strega 1

«Vivono

Dietro l’angolo destro

Del mio cuscino

Attorcigliati

In volute d’acanto

E di notte si sciolgono

Come fanno i capelli

Nell’acqua

Vagando liberi

Nell’infinito spazio

Che sta

Tra il letto e il muro

Parlano

Con mille voci bisbiglianti

Senza fare

Nessun rumore

E al mattino

Si disfano come neve

Sotto la pioggia

Riavvolgendo in gomitoli lucenti

Le loro tele di ragno.»



 SOGNI

Il magico potere che più mi ha affascinata negli anni e che ho a lungo cercato di carpire alle streghe, è sicuramente la chiaroveggenza. Nei tempi antichi, le donne sapienti che conoscevano le proprietà delle erbe e sapevano leggere nei segni della natura l’arrivo di piogge e siccità, dicevano di aver appreso tali facoltà dalle fate, dagli elfi e dagli altri spiriti delle foreste. Esse sapevano, tra le altre cose, come comporre speciali unguenti che, spalmati sulla pelle, causavano uno stato di trance, in cui si aveva l’illusione di staccarsi dal proprio corpo e di volare. Potevano, grazie agli insegnamenti delle “dame bianche”[1] accedere alla “seconda vista”, che permetteva loro di mettersi in contatto e di dialogare con i defunti.

Chi era dotato di queste capacità, nel Medioevo e ancor più nei secoli successivi, fino all’avvento dell’Illuminismo, veniva processato e condannato a morte, sul rogo oppure tramite impiccagione. Oggi sarebbe più semplicemente classificato come disadattato o malato mentale e come tale curato.

Oppure potrebbe scrivere un libro sulle streghe.

Con l’avvento dei moderni movimenti new age, sono stati scritti diversi libri su come indurre e sperimentare i viaggi astrali, o per dirla alla maniera odierna, OBE, “Out of Body Experience”. Si tratta di fenomeni collegati al sonno, che possono capitare a chiunque in determinate situazioni psicofisiche: la sensazione è quella di fluttuare al di sopra del proprio corpo, staccati da esso. Secondo idee filosofiche risalenti addirittura a Platone[2] e riprese dall’esoterismo moderno, si tratterebbe del proprio “corpo astrale”, uno degli involucri sottili di cui sarebbe composto l’essere umano, sede della coscienza e veicolo dell’anima, in grado di separarsi per breve tempo dal corpo fisico e viaggiare indipendentemente da esso, restandone collegato solamente tramite un cordone argentato.

Secondo la scienza, la causa è invece un’iperattività anomala del cervello, che può essere causata da una patologia, ma anche da situazioni di affaticamento emotivo e stress.

Fatto sta che la pretesa di vari guru new age e di eminenti esponenti della Wicca[3] è quella di insegnare a dominare tale fenomeno in modo cosciente e di utilizzarlo consapevolmente ogni volta che si vuole (senza l’utilizzo di droghe, naturalmente, altrimenti son capaci tutti). La possibilità di viaggiare senza limiti di tempo e di spazio, senza spendere in benzina e biglietti aerei, è oltremodo affascinante e sicuramente darebbe la possibilità di conoscere eventi presenti e futuri senza allontanarsi dalla propria camera da letto. Non sarebbe meraviglioso?

Ammetto senza vergogna di essermi a lungo impegnata per apprendere tale facoltà. Dai trent’anni, per circa una decade, acquistai libri sull’argomento e ne seguii le indicazioni con assiduità e dedizione, con il desiderio di raggiungere questo stato di distacco del mio corpo astrale da quello fisico, ma senza ottenere alcun risultato di rilievo. Tentai con la meditazione e l’autoipnosi, ma la maggior parte delle volte finivo semplicemente per addormentarmi. L’unico beneficio che ne ricavai fu quello di imparare a rilassarmi, ma niente di più.

Così, dal momento che ciò che pareva riuscirmi meglio era proprio dormire, decisi di provare un’altra strada per ottenere la tanto agognata “seconda vista”: quella dei sogni.



[1] Le fate apparivano spesso vestite di lunghi abiti bianchi, anche se pare che il loro colore preferito fosse il verde.

[2] Uno dei principali filosofi del mondo occidentale, vissuto ad Atene tra il V e il IV secolo avanti Cristo.

[3] Movimento religioso collegato al Neopaganesimo, di cui parlerò più ampiamente nei prossimi capitoli.

mercoledì 25 novembre 2020

CUORE DI STREGA 3 - Strega o principessa?

 

Terza parte del libro che sto scrivendo. Se vi siete persi l'inizio, vi invito a leggere la storia dal principio, iniziando dalla prima parte, che potrete visualizzare cliccando sul link qui sotto:

Cuore di Strega 1



Strega o principessa?

In conclusione, da cosa si capisce che la sorte ha fatto nascere, in una normalissima famiglia come tante, una piccola strega? È facile, a posteriori, cercare indizi e segni, nel tema natale dello Zodiaco o nei tratti particolari di qualche antenato. La verità è che nasciamo senza libretto delle istruzioni né mappe e non sappiamo da dove veniamo né dove stiamo andando.

A dirla tutta, come la stragrande maggioranza delle bambine della mia generazione, io da piccolina sognavo di essere una principessa. Uno dei miei passatempi preferiti era di stare tra i due specchi dell’armadio dei miei genitori, quelli attaccati alle ante interne. Fino ai tre/quattro anni ero molto carina, avevo gli occhi verdi, i capelli biondi e ricciuti e dentini da latte bianchi e perfetti. Mi piaceva il mio aspetto ma avrei voluto capelli più lunghi, come quelli delle principesse nelle illustrazioni dei libri di fiabe. Mia zia, la più giovane, mi prendeva in giro quando mi beccava a rimirare la mia immagine e mi diceva che a furia di guardare nello specchio, un giorno o l’altro ne sarebbe uscito il diavolo.

Fu un’enorme delusione quando mia madre decise che era ora di tagliarmi i capelli. Me li fece tagliare cortissimi, a maschietto. Mamma è sempre stata una donna pratica e poco incline ai vezzi femminili, inoltre i miei capelli erano ribelli e poco gestibili. Per consolarmi, mi disse che sarebbero ricresciuti, ma non tornarono più né biondi né ricci. Negli anni successivi, si scoprì che ero miope e i miei occhi vennero nascosti dietro dei brutti occhiali dalla montatura marrone; i denti da latte caddero e vennero sostituiti da grossi incisivi distanziati tra loro e, siccome mi ammalavo spesso, diventai pallida e magrolina.

In compenso, le cuginette a me più vicine d’età erano tutte bellissime: una era bionda come il grano, con splendidi occhi azzurri, un’altra era riccia e castana, con occhi verde scuro e denti perfetti, una terza aveva le gote rosse come mele ed era lo specchio della salute… io ero di aspetto scialbo, ma mi distinguevo per la forte personalità, la passione per la lettura e la fantasia.

Siccome non ero affatto stupida, iniziai a capire, non senza sofferenza, che il mio ruolo non sarebbe mai stato quello della principessa. Spesso, ripensando alla bambina che ero, vorrei avere veramente dei poteri magici, per tornare indietro nel tempo a consolarla e rassicurarla, spiegandole che quello della strega è un ruolo estremamente più interessante e divertente!

Cosa difficile da immaginare quando ogni cosa attorno a te, società, scuola, famiglia, ti dicono che la donna perfetta assomiglia alla Barbie e che le uniche streghe accettabili sono bionde, eleganti, sposate e fanno le casalinghe[1].

Il vero problema delle giovani streghe è la mancanza di vecchie maestre.


[1] In “Vita da Strega”, la sitcom statunitense andata in onda sulla RAI negli anni Settanta, l’affascinante Samantha, interpretata da Elizabeth Montgomery, è una strega che sposa un normale essere umano e promette per amore di lui di non usare mai la magia. La protagonista cerca di adattarsi alla vita di una qualsiasi casalinga americana, ma la sua vera natura non glielo permette, creando in ogni episodio situazioni surreali e spassose, in cui la vittima è spesso il marito Darrin. Da bambina, era uno dei miei telefilm preferiti.

sabato 21 novembre 2020

Cuore di Strega 2 - La settima sorella

Questa è la seconda parte del libro che sto scrivendo. Se vi siete persi l'inizio, vi invito a leggere la storia dal principio, iniziando dalla prima parte, che potrete visualizzare cliccando sul link qui sotto:

Cuore di Strega 1



LA SETTIMA SORELLA

Quando mi vide per la prima volta, grinzosa e disperata per il trauma della nascita, mia madre pensò: “Odìo, te si tuta to nona Agata”.

Fu un pensiero per nulla positivo, ma troppo immediato e spontaneo per essere censurato.

La traduzione dal dialetto veneto all’italiano non può essere letterale ma deve per forza essere interpretata, psicologicamente ed emotivamente, altrimenti se ne perderebbe tutta la portata: dovrebbe quindi suonare all’incirca così: “Oh, mio Dio! Figlia mia primogenita, tu assomigli come una goccia d’acqua a mia suocera, colei che ha reso i primi mesi del mio matrimonio un purgatorio e la mia prima gravidanza un’angoscia continua!”

Anche mio padre, non appena mi vide, poté constatare la somiglianza. Tuttavia, la mia mamma, dopo i primi istanti di comprensibile sgomento, cacciò quei fastidiosi pensieri in un angolo della mente e si apprestò ad amarmi del più incondizionato e totalizzante dei sentimenti. Fu piuttosto mio padre a farmi pesare a lungo quella somiglianza fisica e a farne il tormentone della mia infanzia: ogni volta che emergeva il mio lato ribelle mi rivolgeva testuali parole: “Te sì ‘na ciosota come to nona Agata!” con tono di sprezzante rimprovero, calato specialmente sulla parola “ciosota”, ovvero “chioggiotta”, per via della provenienza della nonna dalla zona di Chioggia, i cui abitanti sono rinomati per il brutto carattere.

Quella frase era in realtà dovuta al suo perenne conflitto con la figura materna, che, tramite una specie di staffetta generazionale, aveva riversato su sua figlia, anticipandomi, in tal modo, una buona dose di crisi adolescenziali.

Nonostante la giovanissima età, me ne rendevo perfettamente conto, anche perché in casa se ne parlava spesso: erano state le frequenti liti tra madre e figlio a rendere difficili i primi mesi del matrimonio dei miei genitori. La nonna era stata fredda e scostante con la nuora, ma il vero bersaglio delle sue sfuriate era il figlio, tanto che, quando ci lasciò per trasferirsi a casa della figlia maggiore, rimasta vedova, mio padre era restio ad andarla a trovare; era mia madre ad insistere, una domenica sì ed una no, non riuscendo a comprendere come una madre ed un figlio potessero portarsi tanto vicendevole rancore.

Perché vi sto raccontando tutto questo? Cosa c’entra con il mio cuore di strega?

C’entra, perché ci sono diversissime ipotesi su come la stregoneria si trasmetta da una generazione all’altra: dalla madre alla figlia, per eredità di sangue? Dalla maestra all’allieva, come bagaglio di conoscenze? È un dono che capita a caso? C’entra qualcosa la reincarnazione?

Se davvero credete alla magia, ebbene, cosa ci può essere di più magico della plasticità del cervello umano, della sua capacità di assorbire informazioni, specialmente durante l’infanzia? Cosa c’è di più miracoloso e misterioso del DNA, dell’ereditarietà compressa nell’infinitamente piccolo e nell’infinitamente complesso di quella scala ad elica?

Per questo motivo ho indagato sulla vita di mia nonna paterna, per quel poco che ho potuto, per cercare di comprendere se davvero le somiglio così tanto oppure sia una falsa convinzione, dovuta all’immagine che mio padre si era fatto di me e che insistentemente mi ripeteva.

La vita di mia nonna, a raccontarla, sembra una fiaba dei fratelli Grimm, non nella edulcorata e dolciastra versione disneyana, ma in quella autentica, piena di particolari crudeli e a volte terrorizzanti.

Si chiamava come la pietra dura dai bei disegni concentrici con cui si fanno monili e collane, ed era la più piccola di sette sorelle.

Era piccola anche di statura, tanto che, per mettere i finimenti alla cavalla che guidava i buoi all’aratura, doveva salire su una scala. Suo padre, credo fosse rimasto vedovo presto perché della mia bisnonna non ho notizia alcuna, lavorava una tenuta assieme a suo fratello, il quale ad aiutarlo aveva invece ben sette figli tutti maschi.

Sembra l’inizio della storia delle sette scope e delle sette spade[1], solo che in questo caso non c’erano spade ma aratri e le sette sorelle dovevano svolgere esattamente la stessa quantità di lavoro dei cugini, altrimenti il padrone della tenuta non avrebbe lasciato loro abbastanza per mantenersi. Credo che questo sia il motivo per cui, in un’epoca di indiscusso patriarcato, mio padre crebbe in una famiglia in cui le donne godevano della stessa considerazione dei maschi, se non, per certi versi, maggiore.

Agata amava danzare e, per farlo, quando d’estate c’erano le feste di paese, attraversava i campi a piedi scalzi, per non rovinare le scarpette buone. Fu così che conobbe mio nonno, che era un bell’uomo e un bravo ballerino e lei per questo se ne innamorò. Lo sposò, pentendosene poi per il resto della sua vita, ma non perché avesse trovato Barbablù, anzi. Il nonno era un uomo buono, fin troppo. Si trasferirono in provincia di Padova dove lui prese in affitto una cava di ghiaia. L’attività rendeva, ma al nonno facevano pena i poveracci, perciò dava lavoro ad ogni povero cristo che ne chiedeva, finché fece fallimento ed iniziò a bere.

Nel frattempo lei ebbe nove gravidanze ed otto figli sopravvissero. I primi sette dovettero andare a lavorare per non patire la fame. Quando lo spauracchio della fame smise di far paura, all’ultimo figlio, che era mio padre, fu data la possibilità di studiare, purché la scuola se la pagasse di tasca propria.

Il nonno morì a poco più di quarant’anni, a causa dell’alcolismo, ma Agata era il vero capofamiglia già da tempo.

Aveva talento per il comando e occhio per tutto ciò che era bello ed elegante, anche se non poté mai permettersi nulla di costoso. Incredibilmente orgogliosa, testarda e critica nei confronti della propria famiglia, aveva tuttavia la grande dote di saper ascoltare le disgrazie altrui senza dare giudizi, tanto da diventare il polo d’attrazione di tutto il vicinato: tanta gente la andava a trovare per confidarle problemi e dispiaceri, con la certezza che lei non ne avrebbe spettegolato.

Era terribilmente gelosa dei propri figli, eppure non riusciva ad esprimere il suo affetto con tenerezze, ma solo con la possessività. Aveva una personalità molto forte che tendeva a schiacciare gli altri, ma figli e figlie avevano ereditato il suo stesso orgoglio e individualismo, perciò i rapporti familiari, nonostante i contrasti, si mantennero sempre equilibrati: i maschi irascibili e le femmine volitive, ma uniti da un affetto e da una solidarietà fraterna infrangibile.

Quando morì, ricordo la numerosa parentela riunita, i figli, le nuore e i molti nipoti, raccontare aneddoti su di lei: delle sue frasi taglienti e del suo attaccamento ai nipoti, di quanto le piacesse guardare il pattinaggio artistico in tivù. La sua vita era stata piena di contraddizioni: si era sposata per amore, ma aveva perso ogni romanticismo. Era stata poverissima, ma orgogliosa come una regina. Piccola e tozza, con le mani e i piedi da contadina, ma con l’anima danzante di una ballerina. Esigente e severa con i familiari, pietosa e comprensiva con gli estranei. Era stata temuta, ma anche molto amata.

Una vita da favola brutta: forse per questo, quando da bambina le chiedevo di raccontarmi una storia, mi rispondeva di non conoscerne nessuna.



[1] “La prima spada e l’ultima scopa” da: Fiabe Italiane di Italo Calvino, volume secondo. La fiaba narra di due uomini, uno padre di sette figli, le spade, l’altro di sette figlie, le scope, e della vergogna di quest’ultimo di aver generato soltanto delle femmine. Tuttavia, l’ultima “scopa” riuscirà a battere la prima “spada” grazie alle doti di grazia, astuzia, bellezza, intelligenza e intuito femminile: quest’ultima capacità viene simbolicamente personificata da un personaggio animale, una cavalla, che suggerisce alla protagonista le giuste mosse per raggiungere il proprio scopo.

sabato 14 novembre 2020

Cuore di Strega

Dopo una lunga pausa, riprendo ad utilizzare questo Blog per un motivo ben preciso: ho iniziato a scrivere un libro. Sì, questa volta non si tratta di un breve post o di una poesia, ma di un libro vero e proprio, con prefazione, capitoli e tutto il resto. L'idea mi girava in testa da tempo, ma probabilmente sarebbe rimasto l'ennesimo sogno nel cassetto non fosse stato per la pandemia da Covid-19 che mi ha costretta a rimanere a casa e a riorganizzare il mio tempo.

Non è comunque facile, per una persona incostante come me, prendersi un tale impegno e proprio per evitare di lasciare questo lavoro a metà, ho deciso di condividerlo. 

So che, pubblicandone un pezzo alla volta sul mio Blog, sto implicitamente facendo una promessa ai miei lettori, tanti o pochi che siano: quella di proseguire il lavoro, di non arrendermi alle difficoltà di mettere una parola dopo l'altra, un pensiero dopo l'altro.

Mi impegno anche a rileggere, a correggere, a limare il mio lavoro per non gettarvi ai piedi un cencio, ma per porgervi un ricamo rifinito nel miglior modo possibile.

Spero di ricevere dei feedback, perché ne ho estremo bisogno: sono molto sola e isolata in questo periodo e ho fame e sete di dialoghi che non vertano sempre e solo su contagi, zone rosse, arancioni e gialle, sui mille problemi che stiamo attraversando come società a causa di questa pandemia.

Perciò, vi prego, commentate, chiedete, criticate (con gentilezza) e ne sarò felice.

Inizio oggi e mi sforzerò di pubblicare settimanalmente.

Buona lettura!



CUORE DI STREGA

Di Mara Bagatella

INTRODUZIONE

Le streghe ci sono sempre state e non passeranno mai di moda. Sono il simbolo imperituro di una femminilità selvaggia e indomabile, di un’intelligenza irrazionale e irragionevole, di una conoscenza altra.

Quella della strega è un’immagine potente, radicata nella storia dell’umanità fin dai suoi più remoti inizi. Incute timore, desiderio e ostilità da millenni ed è legata a doppio filo a un solo genere, quello femminile: non fatevi ingannare dalle rivisitazioni moderne alla “Harry Potter”, maghi barbuti e bacchette magiche vanno bene solo nei film e nelle serie TV.

Il potere e la conoscenza delle streghe risiedono nel corpo femminile e in particolare nel basso ventre, discendono dalle antiche divinità femminili venerate in epoca preistorica come portatrici e custodi dei passaggi tra vita, morte e nuova vita.

Temute, venerate, invocate, disprezzate, ostracizzate, bruciate e infine banalizzate e ridicolizzate, ma mai dimenticate.

Sì, come simbolo esse sono immortali. Ma come esseri umani? Sono mai esistite davvero? Vivono ancora tra noi, oggi? E se sì, che aspetto hanno? Dove si nascondono? Come si comportano e come possiamo riconoscerle?

Delle altre non posso dire, ma se siete curiosi di conoscere il cuore di una strega, fate attenzione, perché sto per aprirvi il mio.


GRANDINE

Io credo che streghe ci si nasca, ma riconoscersi tali nel corso della propria vita è un’impresa ardua.

Sono nata in un pomeriggio d’estate. Quando mia madre entrò in ospedale, con un pancione esagerato anche per una puerpera al nono mese, il medico la canzonò, chiedendole se avesse mangiato troppa anguria. In effetti, quella era un’estate particolarmente calda e lei di anguria ne aveva mangiata parecchia; erano gli anni Settanta, non c’erano condizionatori all’epoca e i modi per trovare refrigerio erano pochi.

I miei vivevano in un grande condominio grigio, accanto alla fabbrica dove lavorava mio padre. Le stanze piccole, la cucina di fòrmica; il terrazzo adiacente a quello dei vicini, le scale buie e il cemento caldo e polveroso: mia madre era una ragazza di campagna e quell’appartamento in cui aveva trascorso la sua prima gravidanza doveva esserle sembrato una prigione.

La sera, però, c’erano i baracchini dove si potevano mangiare le angurie, lungo le strade: le “anguriare” con i tavoli di legno e le panche, e le lampadine tutt’attorno che richiamavano sciami di zanzare. La gente usciva e si rinfrescava così, attorno a un tavolo coperto di plastica che subito diventava appiccicoso di succo rosso e semini neri, accanto alle bacinelle piene d’acqua in cui galleggiavano i frutti verdi e lucidi, grandi da far spalancare gli occhi ai bambini. Tutti si fermavano alle anguriare, d’estate, perché le angurie piacevano a tutti; e mia mamma, sicuro, ne aveva mangiate, sulle panche di legno lungo la strada e sul terrazzo caldo di cemento, per cercare un po’ di ristoro mentre la sua pancia cresceva sempre di più nel caldo soffocante di luglio.

Mentre nascevo, scoppiò un furibondo temporale: uno di quei terribili temporali estivi tanto attesi quanto temuti, che portano refrigerio e flagellano la vegetazione. Era tanto forte che mia madre lo sentì, nonostante i lancinanti dolori del suo primo parto assorbissero in quel momento tutta la sua attenzione; durante la mia infanzia mi raccontò spesso di quel temporale.

Ogni volta che ne arrivava uno e io restavo, atterrita e affascinata, a guardare dalla finestra la pioggia che sferzava gli orti e i tronchi degli alberi piegati dal vento mi diceva: quando sei nata c’era un tempo così.

Tra le antiche rune, ce n’è una che si chiama Hagalaz e si disegna con due aste verticali unite tra loro da una linea obliqua che scende da sinistra verso destra, come una via di mezzo tra una H e una N. Il suo significato è “grandine”. È la runa della creazione e della trasformazione e porta con sé un presagio simile a quelli della Torre e della Morte nei Tarocchi, mescolati insieme: presagi apparentemente funesti per chi non ha confidenza con il simbolismo della Divinazione. La Torre significa “crisi”, in tutte le possibili declinazioni di significato che può assumere questa parola; la carta della Morte indica qualcosa che deve finire per permettere ad altro di iniziare. Hagalaz indica un cambiamento e una rinascita attraverso una crisi; forze incontrollate, ira della natura, la frustrazione che si prova quando si cerca di comprendere qualcosa di più grande di noi, tutti gli ostacoli da superare prima di giungere alla completezza e all’armonia interiore.

E così io nacqui sotto il segno della grandine, che è uno di quei segni che, potendo, non sceglieresti mai. Eppure, nonostante la forza distruttiva che reca con sé, Hagalaz non ha un significato così negativo, poiché la grandine poi si scioglie e diventa acqua che disseta e porta sollievo alla terra riarsa dal troppo sole. Un vecchio detto contadino recita: “Par el seco, xe bona anca la tempesta”, quando c’è siccità ci si accontenta anche della grandine, che poi è pure un modo di constatare come, in varie occasioni della vita, ci si accontenti anche di qualcosa di poco appetibile, piuttosto di niente.

Dopo essere nata, piansi, come fa ogni bambino, e fin qui, tutto normale.

Solo che io continuai a farlo, quasi ininterrottamente, per i due anni successivi.

Piangevo di notte, piangevo di giorno, non dormivo quasi mai, per la disperazione dei miei genitori. Mi portavano dal pediatra per capire cosa avessi, ma senza risultato: pareva proprio che fossi sana come un pesce. Mangiavo e crescevo normalmente, tuttavia non smettevo di piangere. Il pianto rimase una costante nella mia vita per molti anni a venire: per tutta l’infanzia, l’adolescenza e gran parte della mia vita adulta, ho avuto la lacrima facile, tanto che mio padre me lo scrisse perfino su un bigliettino natalizio che accompagnava il mio regalo verso i sei, sette anni:

“Cara, brava e buona,

butta via la lacrimetta

e sarai una bambina

quasi perfetta”

firmato: Babbo Natale

 

Ma io non potevo rinunciare alle mie lacrime, né sarei mai stata la bimba perfetta che mio padre sognava, anche se allora non potevo saperlo, né capirlo. Quella che usciva dai miei occhi era la grandine divenuta acqua, era la pena che provavo verso tutto il dolore e il male del mondo; l’unico dono che avrei mai potuto fare di me, perché quel pomeriggio d’estate, nell’inconsapevolezza di tutti, me compresa, era nata una strega, con il cuore perennemente in tempesta e che avrebbe per sempre detestato le angurie.


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