Questa è la seconda parte del libro che sto scrivendo. Se vi siete persi l'inizio, vi invito a leggere la storia dal principio, iniziando dalla prima parte, che potrete visualizzare cliccando sul link qui sotto:
LA SETTIMA SORELLA
Quando mi vide per la prima volta, grinzosa e disperata
per il trauma della nascita, mia madre pensò: “Odìo, te si tuta to nona
Agata”.
Fu un pensiero per nulla positivo, ma troppo immediato e
spontaneo per essere censurato.
La traduzione dal dialetto veneto all’italiano non può
essere letterale ma deve per forza essere interpretata, psicologicamente ed
emotivamente, altrimenti se ne perderebbe tutta la portata: dovrebbe quindi
suonare all’incirca così: “Oh, mio Dio! Figlia mia primogenita, tu assomigli
come una goccia d’acqua a mia suocera, colei che ha reso i primi mesi del mio
matrimonio un purgatorio e la mia prima gravidanza un’angoscia continua!”
Anche mio padre, non appena mi vide, poté constatare la
somiglianza. Tuttavia, la mia mamma, dopo i primi istanti di comprensibile
sgomento, cacciò quei fastidiosi pensieri in un angolo della mente e si
apprestò ad amarmi del più incondizionato e totalizzante dei sentimenti. Fu
piuttosto mio padre a farmi pesare a lungo quella somiglianza fisica e a farne
il tormentone della mia infanzia: ogni volta che emergeva il mio lato ribelle
mi rivolgeva testuali parole: “Te sì ‘na ciosota come to nona Agata!”
con tono di sprezzante rimprovero, calato specialmente sulla parola “ciosota”,
ovvero “chioggiotta”, per via della provenienza della nonna dalla zona di
Chioggia, i cui abitanti sono rinomati per il brutto carattere.
Quella frase era in realtà dovuta al suo perenne conflitto
con la figura materna, che, tramite una specie di staffetta generazionale, aveva
riversato su sua figlia, anticipandomi, in tal modo, una buona dose di crisi
adolescenziali.
Nonostante la giovanissima età, me ne rendevo
perfettamente conto, anche perché in casa se ne parlava spesso: erano state le
frequenti liti tra madre e figlio a rendere difficili i primi mesi del
matrimonio dei miei genitori. La nonna era stata fredda e scostante con la
nuora, ma il vero bersaglio delle sue sfuriate era il figlio, tanto che, quando
ci lasciò per trasferirsi a casa della figlia maggiore, rimasta vedova, mio
padre era restio ad andarla a trovare; era mia madre ad insistere, una domenica
sì ed una no, non riuscendo a comprendere come una madre ed un figlio potessero
portarsi tanto vicendevole rancore.
Perché vi sto raccontando tutto questo? Cosa c’entra con
il mio cuore di strega?
C’entra, perché ci sono diversissime ipotesi su come la
stregoneria si trasmetta da una generazione all’altra: dalla madre alla figlia,
per eredità di sangue? Dalla maestra all’allieva, come bagaglio di conoscenze?
È un dono che capita a caso? C’entra qualcosa la reincarnazione?
Se davvero credete alla magia, ebbene, cosa ci può essere
di più magico della plasticità del cervello umano, della sua capacità di
assorbire informazioni, specialmente durante l’infanzia? Cosa c’è di più
miracoloso e misterioso del DNA, dell’ereditarietà compressa nell’infinitamente
piccolo e nell’infinitamente complesso di quella scala ad elica?
Per questo motivo ho indagato sulla vita di mia nonna
paterna, per quel poco che ho potuto, per cercare di comprendere se davvero le
somiglio così tanto oppure sia una falsa convinzione, dovuta all’immagine che
mio padre si era fatto di me e che insistentemente mi ripeteva.
La vita di mia nonna, a raccontarla, sembra una fiaba dei
fratelli Grimm, non nella edulcorata e dolciastra versione disneyana, ma in
quella autentica, piena di particolari crudeli e a volte terrorizzanti.
Si chiamava come la pietra dura dai bei disegni
concentrici con cui si fanno monili e collane, ed era la più piccola di sette
sorelle.
Era piccola anche di statura, tanto che, per mettere i
finimenti alla cavalla che guidava i buoi all’aratura, doveva salire su una
scala. Suo padre, credo fosse rimasto vedovo presto perché della mia bisnonna
non ho notizia alcuna, lavorava una tenuta assieme a suo fratello, il quale ad
aiutarlo aveva invece ben sette figli tutti maschi.
Sembra l’inizio della storia delle sette scope e delle sette
spade[1],
solo che in questo caso non c’erano spade ma aratri e le sette sorelle dovevano
svolgere esattamente la stessa quantità di lavoro dei cugini, altrimenti il
padrone della tenuta non avrebbe lasciato loro abbastanza per mantenersi. Credo
che questo sia il motivo per cui, in un’epoca di indiscusso patriarcato, mio
padre crebbe in una famiglia in cui le donne godevano della stessa
considerazione dei maschi, se non, per certi versi, maggiore.
Agata amava danzare e, per farlo, quando d’estate c’erano
le feste di paese, attraversava i campi a piedi scalzi, per non rovinare le
scarpette buone. Fu così che conobbe mio nonno, che era un bell’uomo e un bravo
ballerino e lei per questo se ne innamorò. Lo sposò, pentendosene poi per il
resto della sua vita, ma non perché avesse trovato Barbablù, anzi. Il nonno era
un uomo buono, fin troppo. Si trasferirono in provincia di Padova dove lui prese
in affitto una cava di ghiaia. L’attività rendeva, ma al nonno facevano pena i
poveracci, perciò dava lavoro ad ogni povero cristo che ne chiedeva, finché
fece fallimento ed iniziò a bere.
Nel frattempo lei ebbe nove gravidanze ed otto figli
sopravvissero. I primi sette dovettero andare a lavorare per non patire la
fame. Quando lo spauracchio della fame smise di far paura, all’ultimo figlio,
che era mio padre, fu data la possibilità di studiare, purché la scuola se la
pagasse di tasca propria.
Il nonno morì a poco più di quarant’anni, a causa
dell’alcolismo, ma Agata era il vero capofamiglia già da tempo.
Aveva talento per il comando e occhio per tutto ciò che
era bello ed elegante, anche se non poté mai permettersi nulla di costoso.
Incredibilmente orgogliosa, testarda e critica nei confronti della propria
famiglia, aveva tuttavia la grande dote di saper ascoltare le disgrazie altrui senza
dare giudizi, tanto da diventare il polo d’attrazione di tutto il vicinato:
tanta gente la andava a trovare per confidarle problemi e dispiaceri, con la
certezza che lei non ne avrebbe spettegolato.
Era terribilmente gelosa dei propri figli, eppure non
riusciva ad esprimere il suo affetto con tenerezze, ma solo con la
possessività. Aveva una personalità molto forte che tendeva a schiacciare gli
altri, ma figli e figlie avevano ereditato il suo stesso orgoglio e individualismo,
perciò i rapporti familiari, nonostante i contrasti, si mantennero sempre
equilibrati: i maschi irascibili e le femmine volitive, ma uniti da un affetto
e da una solidarietà fraterna infrangibile.
Quando morì, ricordo la numerosa parentela riunita, i
figli, le nuore e i molti nipoti, raccontare aneddoti su di lei: delle sue
frasi taglienti e del suo attaccamento ai nipoti, di quanto le piacesse
guardare il pattinaggio artistico in tivù. La sua vita era stata piena di
contraddizioni: si era sposata per amore, ma aveva perso ogni romanticismo. Era
stata poverissima, ma orgogliosa come una regina. Piccola e tozza, con le mani
e i piedi da contadina, ma con l’anima danzante di una ballerina. Esigente e
severa con i familiari, pietosa e comprensiva con gli estranei. Era stata
temuta, ma anche molto amata.
Una vita da favola brutta: forse per questo, quando da
bambina le chiedevo di raccontarmi una storia, mi rispondeva di non conoscerne
nessuna.
[1] “La prima spada e l’ultima scopa” da: Fiabe
Italiane di Italo Calvino, volume secondo. La fiaba narra di due uomini, uno
padre di sette figli, le spade, l’altro di sette figlie, le scope, e della
vergogna di quest’ultimo di aver generato soltanto delle femmine. Tuttavia,
l’ultima “scopa” riuscirà a battere la prima “spada” grazie alle doti di
grazia, astuzia, bellezza, intelligenza e intuito femminile: quest’ultima
capacità viene simbolicamente personificata da un personaggio animale, una
cavalla, che suggerisce alla protagonista le giuste mosse per raggiungere il
proprio scopo.
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