Quinta parte di Cuore di Strega. So che sto andando a rilento, ma scrivere non è il mio mestiere ed ogni parte di questo libro mi sta prendendo molte energie e tempo.
In realtà, su Wattpad sono più avanti (ho pubblicato 10 parti, mentre qui sono alla quinta), perciò, se volete leggere qualcosa in più, vi lascio il link, qui sotto. Vi devo avvertire però, che per leggere su quella piattaforma è necessario fare l'iscrizione e se leggete da smartphone dovete per forza scaricarvi l'app. Tuttavia si tratta di un'applicazione interessante perché permette di lasciare dei like (stelline) e di comunicare con l'autrice lasciando dei commenti; in realtà i commenti me li potete lasciare anche qui e se vorrete darmi un vostro parere o fare un'osservazione o una critica costruttiva, ne avrei un grande piacere.
Persa nel buio
Dalla nascita fino a circa due anni, a detta dei miei genitori,
ho dormito pochissimo, ma in seguito ho avuto modo di rifarmi alla grande e di
instaurare un rapporto particolare con il mondo dei sogni: conservo alcuni
ricordi di sogni fatti tra i tre e i cinque anni: o meglio, di due incubi.
Premetto che quando ero molto piccola, fino ai 3 o 4
anni, soffrivo di sonnambulismo e i miei genitori impararono a loro, anzi, a
mie spese che non è il caso di svegliare un sonnambulo, perché si rischia di
fargli venire delle serie crisi di nervi, con urla disumane e tremori. Questa
premessa è necessaria perché io ricordo quegli incubi non come dei sogni, ma
come fatti realmente accaduti e può essere che siano entrambe le cose assieme.
Nel primo, ero nel mio letto e sentivo dei passi che si
avvicinavano: non so come, ma sapevo che era il Diavolo che voleva venirmi a
prendere. Ero inerte e terrorizzata mentre sentivo quella presenza accanto a
me, invisibile eppure solida, concreta, come quando, ad occhi chiusi,
avvertiamo che qualcuno di silenzioso e immobile si trova proprio accanto a
noi, oppure quando sentiamo come una puntura di spillo sul collo, uno sguardo
alle nostre spalle e, voltandoci all’improvviso, eccolo, è lì.
Forse si trattava solamente di uno dei miei genitori o di
mia nonna che, magari alzatasi di notte per andare al bagno, si era fermata un
momento al mio capezzale per controllarmi il respiro. Ma, nel dormiveglia, io
avevo avvertito quella presenza come maligna, ne ero stata terrorizzata a tal
segno da ricordare quel sogno per tutta la vita: il batticuore, la goccia di
sudore che mi scendeva sul collo, il senso di impotenza e di paralisi. Forse,
un retaggio antico: l’istinto del cucciolo che si immobilizza all’avvicinarsi
di un predatore, un ricordo ancestrale fissato nel DNA.
Il secondo sogno è più articolato e solo di recente l’ho
riclassificato da “ricordo di un fatto” a “ricordo di un sogno”. Le sensazioni
ad esso legate sono talmente vivide che non potrei giurare su cosa sia
realmente accaduto: l’unica cosa di cui sono certa è il profondo dolore che mi
causò allora, la cui eco lontana mi ferisce ancora oggi.
Mi alzavo dal letto, anzi, mi calavo giù, tanto ero
piccina, in piena notte, non so per fare cosa. Un passo dopo l’altro, mi
allontanavo dalla camera, orientandomi con le mani tese, toccando le superfici
dei mobili, gli stipiti delle porte… quando, all’improvviso, rimasi priva di
ogni appiglio e, nel buio assoluto, persi completamente l’orientamento. Fu come
se le tenebre si dilatassero attorno a me.
Mi sedetti per terra, provai a muovermi carponi, cercando
la superficie di un muro, lo spigolo di un mobile, inutilmente. Là dove credevo
di trovare la gamba di un tavolo, l’angolo di una credenza, non c’era nulla: mi
ero smarrita a casa mia, come se mi trovassi in un deserto o in un universo
parallelo, completamente vuoto.
Disperata, mi misi a piangere, a chiamare la mamma… e da
un punto non troppo lontano eppure irraggiungibile, ne udii la voce. Mi aveva
sentita, si era svegliata! Ero salva!
Ma la sensazione di sollievo durò meno di un battito di
cuore perché, subito, si aggiunse un’altra voce, quella di mio padre, che
diceva: “Non alzarti, lascia che pianga.”
Fino a qui non so se il mio fosse solo un incubo o, in
preda ad un episodio di sonnambulismo io mi fossi veramente ritrovata a vagare
per casa, ma le parole di mio padre credo siano un ricordo vero: la reazione di
un adulto assonnato, che il giorno dopo deve andare al lavoro e che è stanco
dei continui pianti della figlia piccola.
Io, però, ne fui completamente devastata. Mi sentii
abbandonata, rifiutata, una naufraga in un mare piatto, nero, senza fine.
Sperimentai l’angoscia della più totale solitudine e per la prima volta nella
mia vita, il mio cuore si spezzò.
Di quella prima volta conservo ancora la cicatrice.
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