sabato 28 novembre 2020

CUORE DI STREGA 4 - Sogni

 

QUARTA parte del libro che sto scrivendo. Se vi siete persi l'inizio, vi invito a leggere la storia dal principio, iniziando dalla prima parte, che potrete visualizzare cliccando sul link qui sotto:

Cuore di Strega 1

«Vivono

Dietro l’angolo destro

Del mio cuscino

Attorcigliati

In volute d’acanto

E di notte si sciolgono

Come fanno i capelli

Nell’acqua

Vagando liberi

Nell’infinito spazio

Che sta

Tra il letto e il muro

Parlano

Con mille voci bisbiglianti

Senza fare

Nessun rumore

E al mattino

Si disfano come neve

Sotto la pioggia

Riavvolgendo in gomitoli lucenti

Le loro tele di ragno.»



 SOGNI

Il magico potere che più mi ha affascinata negli anni e che ho a lungo cercato di carpire alle streghe, è sicuramente la chiaroveggenza. Nei tempi antichi, le donne sapienti che conoscevano le proprietà delle erbe e sapevano leggere nei segni della natura l’arrivo di piogge e siccità, dicevano di aver appreso tali facoltà dalle fate, dagli elfi e dagli altri spiriti delle foreste. Esse sapevano, tra le altre cose, come comporre speciali unguenti che, spalmati sulla pelle, causavano uno stato di trance, in cui si aveva l’illusione di staccarsi dal proprio corpo e di volare. Potevano, grazie agli insegnamenti delle “dame bianche”[1] accedere alla “seconda vista”, che permetteva loro di mettersi in contatto e di dialogare con i defunti.

Chi era dotato di queste capacità, nel Medioevo e ancor più nei secoli successivi, fino all’avvento dell’Illuminismo, veniva processato e condannato a morte, sul rogo oppure tramite impiccagione. Oggi sarebbe più semplicemente classificato come disadattato o malato mentale e come tale curato.

Oppure potrebbe scrivere un libro sulle streghe.

Con l’avvento dei moderni movimenti new age, sono stati scritti diversi libri su come indurre e sperimentare i viaggi astrali, o per dirla alla maniera odierna, OBE, “Out of Body Experience”. Si tratta di fenomeni collegati al sonno, che possono capitare a chiunque in determinate situazioni psicofisiche: la sensazione è quella di fluttuare al di sopra del proprio corpo, staccati da esso. Secondo idee filosofiche risalenti addirittura a Platone[2] e riprese dall’esoterismo moderno, si tratterebbe del proprio “corpo astrale”, uno degli involucri sottili di cui sarebbe composto l’essere umano, sede della coscienza e veicolo dell’anima, in grado di separarsi per breve tempo dal corpo fisico e viaggiare indipendentemente da esso, restandone collegato solamente tramite un cordone argentato.

Secondo la scienza, la causa è invece un’iperattività anomala del cervello, che può essere causata da una patologia, ma anche da situazioni di affaticamento emotivo e stress.

Fatto sta che la pretesa di vari guru new age e di eminenti esponenti della Wicca[3] è quella di insegnare a dominare tale fenomeno in modo cosciente e di utilizzarlo consapevolmente ogni volta che si vuole (senza l’utilizzo di droghe, naturalmente, altrimenti son capaci tutti). La possibilità di viaggiare senza limiti di tempo e di spazio, senza spendere in benzina e biglietti aerei, è oltremodo affascinante e sicuramente darebbe la possibilità di conoscere eventi presenti e futuri senza allontanarsi dalla propria camera da letto. Non sarebbe meraviglioso?

Ammetto senza vergogna di essermi a lungo impegnata per apprendere tale facoltà. Dai trent’anni, per circa una decade, acquistai libri sull’argomento e ne seguii le indicazioni con assiduità e dedizione, con il desiderio di raggiungere questo stato di distacco del mio corpo astrale da quello fisico, ma senza ottenere alcun risultato di rilievo. Tentai con la meditazione e l’autoipnosi, ma la maggior parte delle volte finivo semplicemente per addormentarmi. L’unico beneficio che ne ricavai fu quello di imparare a rilassarmi, ma niente di più.

Così, dal momento che ciò che pareva riuscirmi meglio era proprio dormire, decisi di provare un’altra strada per ottenere la tanto agognata “seconda vista”: quella dei sogni.



[1] Le fate apparivano spesso vestite di lunghi abiti bianchi, anche se pare che il loro colore preferito fosse il verde.

[2] Uno dei principali filosofi del mondo occidentale, vissuto ad Atene tra il V e il IV secolo avanti Cristo.

[3] Movimento religioso collegato al Neopaganesimo, di cui parlerò più ampiamente nei prossimi capitoli.

mercoledì 25 novembre 2020

CUORE DI STREGA 3 - Strega o principessa?

 

Terza parte del libro che sto scrivendo. Se vi siete persi l'inizio, vi invito a leggere la storia dal principio, iniziando dalla prima parte, che potrete visualizzare cliccando sul link qui sotto:

Cuore di Strega 1



Strega o principessa?

In conclusione, da cosa si capisce che la sorte ha fatto nascere, in una normalissima famiglia come tante, una piccola strega? È facile, a posteriori, cercare indizi e segni, nel tema natale dello Zodiaco o nei tratti particolari di qualche antenato. La verità è che nasciamo senza libretto delle istruzioni né mappe e non sappiamo da dove veniamo né dove stiamo andando.

A dirla tutta, come la stragrande maggioranza delle bambine della mia generazione, io da piccolina sognavo di essere una principessa. Uno dei miei passatempi preferiti era di stare tra i due specchi dell’armadio dei miei genitori, quelli attaccati alle ante interne. Fino ai tre/quattro anni ero molto carina, avevo gli occhi verdi, i capelli biondi e ricciuti e dentini da latte bianchi e perfetti. Mi piaceva il mio aspetto ma avrei voluto capelli più lunghi, come quelli delle principesse nelle illustrazioni dei libri di fiabe. Mia zia, la più giovane, mi prendeva in giro quando mi beccava a rimirare la mia immagine e mi diceva che a furia di guardare nello specchio, un giorno o l’altro ne sarebbe uscito il diavolo.

Fu un’enorme delusione quando mia madre decise che era ora di tagliarmi i capelli. Me li fece tagliare cortissimi, a maschietto. Mamma è sempre stata una donna pratica e poco incline ai vezzi femminili, inoltre i miei capelli erano ribelli e poco gestibili. Per consolarmi, mi disse che sarebbero ricresciuti, ma non tornarono più né biondi né ricci. Negli anni successivi, si scoprì che ero miope e i miei occhi vennero nascosti dietro dei brutti occhiali dalla montatura marrone; i denti da latte caddero e vennero sostituiti da grossi incisivi distanziati tra loro e, siccome mi ammalavo spesso, diventai pallida e magrolina.

In compenso, le cuginette a me più vicine d’età erano tutte bellissime: una era bionda come il grano, con splendidi occhi azzurri, un’altra era riccia e castana, con occhi verde scuro e denti perfetti, una terza aveva le gote rosse come mele ed era lo specchio della salute… io ero di aspetto scialbo, ma mi distinguevo per la forte personalità, la passione per la lettura e la fantasia.

Siccome non ero affatto stupida, iniziai a capire, non senza sofferenza, che il mio ruolo non sarebbe mai stato quello della principessa. Spesso, ripensando alla bambina che ero, vorrei avere veramente dei poteri magici, per tornare indietro nel tempo a consolarla e rassicurarla, spiegandole che quello della strega è un ruolo estremamente più interessante e divertente!

Cosa difficile da immaginare quando ogni cosa attorno a te, società, scuola, famiglia, ti dicono che la donna perfetta assomiglia alla Barbie e che le uniche streghe accettabili sono bionde, eleganti, sposate e fanno le casalinghe[1].

Il vero problema delle giovani streghe è la mancanza di vecchie maestre.


[1] In “Vita da Strega”, la sitcom statunitense andata in onda sulla RAI negli anni Settanta, l’affascinante Samantha, interpretata da Elizabeth Montgomery, è una strega che sposa un normale essere umano e promette per amore di lui di non usare mai la magia. La protagonista cerca di adattarsi alla vita di una qualsiasi casalinga americana, ma la sua vera natura non glielo permette, creando in ogni episodio situazioni surreali e spassose, in cui la vittima è spesso il marito Darrin. Da bambina, era uno dei miei telefilm preferiti.

sabato 21 novembre 2020

Cuore di Strega 2 - La settima sorella

Questa è la seconda parte del libro che sto scrivendo. Se vi siete persi l'inizio, vi invito a leggere la storia dal principio, iniziando dalla prima parte, che potrete visualizzare cliccando sul link qui sotto:

Cuore di Strega 1



LA SETTIMA SORELLA

Quando mi vide per la prima volta, grinzosa e disperata per il trauma della nascita, mia madre pensò: “Odìo, te si tuta to nona Agata”.

Fu un pensiero per nulla positivo, ma troppo immediato e spontaneo per essere censurato.

La traduzione dal dialetto veneto all’italiano non può essere letterale ma deve per forza essere interpretata, psicologicamente ed emotivamente, altrimenti se ne perderebbe tutta la portata: dovrebbe quindi suonare all’incirca così: “Oh, mio Dio! Figlia mia primogenita, tu assomigli come una goccia d’acqua a mia suocera, colei che ha reso i primi mesi del mio matrimonio un purgatorio e la mia prima gravidanza un’angoscia continua!”

Anche mio padre, non appena mi vide, poté constatare la somiglianza. Tuttavia, la mia mamma, dopo i primi istanti di comprensibile sgomento, cacciò quei fastidiosi pensieri in un angolo della mente e si apprestò ad amarmi del più incondizionato e totalizzante dei sentimenti. Fu piuttosto mio padre a farmi pesare a lungo quella somiglianza fisica e a farne il tormentone della mia infanzia: ogni volta che emergeva il mio lato ribelle mi rivolgeva testuali parole: “Te sì ‘na ciosota come to nona Agata!” con tono di sprezzante rimprovero, calato specialmente sulla parola “ciosota”, ovvero “chioggiotta”, per via della provenienza della nonna dalla zona di Chioggia, i cui abitanti sono rinomati per il brutto carattere.

Quella frase era in realtà dovuta al suo perenne conflitto con la figura materna, che, tramite una specie di staffetta generazionale, aveva riversato su sua figlia, anticipandomi, in tal modo, una buona dose di crisi adolescenziali.

Nonostante la giovanissima età, me ne rendevo perfettamente conto, anche perché in casa se ne parlava spesso: erano state le frequenti liti tra madre e figlio a rendere difficili i primi mesi del matrimonio dei miei genitori. La nonna era stata fredda e scostante con la nuora, ma il vero bersaglio delle sue sfuriate era il figlio, tanto che, quando ci lasciò per trasferirsi a casa della figlia maggiore, rimasta vedova, mio padre era restio ad andarla a trovare; era mia madre ad insistere, una domenica sì ed una no, non riuscendo a comprendere come una madre ed un figlio potessero portarsi tanto vicendevole rancore.

Perché vi sto raccontando tutto questo? Cosa c’entra con il mio cuore di strega?

C’entra, perché ci sono diversissime ipotesi su come la stregoneria si trasmetta da una generazione all’altra: dalla madre alla figlia, per eredità di sangue? Dalla maestra all’allieva, come bagaglio di conoscenze? È un dono che capita a caso? C’entra qualcosa la reincarnazione?

Se davvero credete alla magia, ebbene, cosa ci può essere di più magico della plasticità del cervello umano, della sua capacità di assorbire informazioni, specialmente durante l’infanzia? Cosa c’è di più miracoloso e misterioso del DNA, dell’ereditarietà compressa nell’infinitamente piccolo e nell’infinitamente complesso di quella scala ad elica?

Per questo motivo ho indagato sulla vita di mia nonna paterna, per quel poco che ho potuto, per cercare di comprendere se davvero le somiglio così tanto oppure sia una falsa convinzione, dovuta all’immagine che mio padre si era fatto di me e che insistentemente mi ripeteva.

La vita di mia nonna, a raccontarla, sembra una fiaba dei fratelli Grimm, non nella edulcorata e dolciastra versione disneyana, ma in quella autentica, piena di particolari crudeli e a volte terrorizzanti.

Si chiamava come la pietra dura dai bei disegni concentrici con cui si fanno monili e collane, ed era la più piccola di sette sorelle.

Era piccola anche di statura, tanto che, per mettere i finimenti alla cavalla che guidava i buoi all’aratura, doveva salire su una scala. Suo padre, credo fosse rimasto vedovo presto perché della mia bisnonna non ho notizia alcuna, lavorava una tenuta assieme a suo fratello, il quale ad aiutarlo aveva invece ben sette figli tutti maschi.

Sembra l’inizio della storia delle sette scope e delle sette spade[1], solo che in questo caso non c’erano spade ma aratri e le sette sorelle dovevano svolgere esattamente la stessa quantità di lavoro dei cugini, altrimenti il padrone della tenuta non avrebbe lasciato loro abbastanza per mantenersi. Credo che questo sia il motivo per cui, in un’epoca di indiscusso patriarcato, mio padre crebbe in una famiglia in cui le donne godevano della stessa considerazione dei maschi, se non, per certi versi, maggiore.

Agata amava danzare e, per farlo, quando d’estate c’erano le feste di paese, attraversava i campi a piedi scalzi, per non rovinare le scarpette buone. Fu così che conobbe mio nonno, che era un bell’uomo e un bravo ballerino e lei per questo se ne innamorò. Lo sposò, pentendosene poi per il resto della sua vita, ma non perché avesse trovato Barbablù, anzi. Il nonno era un uomo buono, fin troppo. Si trasferirono in provincia di Padova dove lui prese in affitto una cava di ghiaia. L’attività rendeva, ma al nonno facevano pena i poveracci, perciò dava lavoro ad ogni povero cristo che ne chiedeva, finché fece fallimento ed iniziò a bere.

Nel frattempo lei ebbe nove gravidanze ed otto figli sopravvissero. I primi sette dovettero andare a lavorare per non patire la fame. Quando lo spauracchio della fame smise di far paura, all’ultimo figlio, che era mio padre, fu data la possibilità di studiare, purché la scuola se la pagasse di tasca propria.

Il nonno morì a poco più di quarant’anni, a causa dell’alcolismo, ma Agata era il vero capofamiglia già da tempo.

Aveva talento per il comando e occhio per tutto ciò che era bello ed elegante, anche se non poté mai permettersi nulla di costoso. Incredibilmente orgogliosa, testarda e critica nei confronti della propria famiglia, aveva tuttavia la grande dote di saper ascoltare le disgrazie altrui senza dare giudizi, tanto da diventare il polo d’attrazione di tutto il vicinato: tanta gente la andava a trovare per confidarle problemi e dispiaceri, con la certezza che lei non ne avrebbe spettegolato.

Era terribilmente gelosa dei propri figli, eppure non riusciva ad esprimere il suo affetto con tenerezze, ma solo con la possessività. Aveva una personalità molto forte che tendeva a schiacciare gli altri, ma figli e figlie avevano ereditato il suo stesso orgoglio e individualismo, perciò i rapporti familiari, nonostante i contrasti, si mantennero sempre equilibrati: i maschi irascibili e le femmine volitive, ma uniti da un affetto e da una solidarietà fraterna infrangibile.

Quando morì, ricordo la numerosa parentela riunita, i figli, le nuore e i molti nipoti, raccontare aneddoti su di lei: delle sue frasi taglienti e del suo attaccamento ai nipoti, di quanto le piacesse guardare il pattinaggio artistico in tivù. La sua vita era stata piena di contraddizioni: si era sposata per amore, ma aveva perso ogni romanticismo. Era stata poverissima, ma orgogliosa come una regina. Piccola e tozza, con le mani e i piedi da contadina, ma con l’anima danzante di una ballerina. Esigente e severa con i familiari, pietosa e comprensiva con gli estranei. Era stata temuta, ma anche molto amata.

Una vita da favola brutta: forse per questo, quando da bambina le chiedevo di raccontarmi una storia, mi rispondeva di non conoscerne nessuna.



[1] “La prima spada e l’ultima scopa” da: Fiabe Italiane di Italo Calvino, volume secondo. La fiaba narra di due uomini, uno padre di sette figli, le spade, l’altro di sette figlie, le scope, e della vergogna di quest’ultimo di aver generato soltanto delle femmine. Tuttavia, l’ultima “scopa” riuscirà a battere la prima “spada” grazie alle doti di grazia, astuzia, bellezza, intelligenza e intuito femminile: quest’ultima capacità viene simbolicamente personificata da un personaggio animale, una cavalla, che suggerisce alla protagonista le giuste mosse per raggiungere il proprio scopo.

sabato 14 novembre 2020

Cuore di Strega

Dopo una lunga pausa, riprendo ad utilizzare questo Blog per un motivo ben preciso: ho iniziato a scrivere un libro. Sì, questa volta non si tratta di un breve post o di una poesia, ma di un libro vero e proprio, con prefazione, capitoli e tutto il resto. L'idea mi girava in testa da tempo, ma probabilmente sarebbe rimasto l'ennesimo sogno nel cassetto non fosse stato per la pandemia da Covid-19 che mi ha costretta a rimanere a casa e a riorganizzare il mio tempo.

Non è comunque facile, per una persona incostante come me, prendersi un tale impegno e proprio per evitare di lasciare questo lavoro a metà, ho deciso di condividerlo. 

So che, pubblicandone un pezzo alla volta sul mio Blog, sto implicitamente facendo una promessa ai miei lettori, tanti o pochi che siano: quella di proseguire il lavoro, di non arrendermi alle difficoltà di mettere una parola dopo l'altra, un pensiero dopo l'altro.

Mi impegno anche a rileggere, a correggere, a limare il mio lavoro per non gettarvi ai piedi un cencio, ma per porgervi un ricamo rifinito nel miglior modo possibile.

Spero di ricevere dei feedback, perché ne ho estremo bisogno: sono molto sola e isolata in questo periodo e ho fame e sete di dialoghi che non vertano sempre e solo su contagi, zone rosse, arancioni e gialle, sui mille problemi che stiamo attraversando come società a causa di questa pandemia.

Perciò, vi prego, commentate, chiedete, criticate (con gentilezza) e ne sarò felice.

Inizio oggi e mi sforzerò di pubblicare settimanalmente.

Buona lettura!



CUORE DI STREGA

Di Mara Bagatella

INTRODUZIONE

Le streghe ci sono sempre state e non passeranno mai di moda. Sono il simbolo imperituro di una femminilità selvaggia e indomabile, di un’intelligenza irrazionale e irragionevole, di una conoscenza altra.

Quella della strega è un’immagine potente, radicata nella storia dell’umanità fin dai suoi più remoti inizi. Incute timore, desiderio e ostilità da millenni ed è legata a doppio filo a un solo genere, quello femminile: non fatevi ingannare dalle rivisitazioni moderne alla “Harry Potter”, maghi barbuti e bacchette magiche vanno bene solo nei film e nelle serie TV.

Il potere e la conoscenza delle streghe risiedono nel corpo femminile e in particolare nel basso ventre, discendono dalle antiche divinità femminili venerate in epoca preistorica come portatrici e custodi dei passaggi tra vita, morte e nuova vita.

Temute, venerate, invocate, disprezzate, ostracizzate, bruciate e infine banalizzate e ridicolizzate, ma mai dimenticate.

Sì, come simbolo esse sono immortali. Ma come esseri umani? Sono mai esistite davvero? Vivono ancora tra noi, oggi? E se sì, che aspetto hanno? Dove si nascondono? Come si comportano e come possiamo riconoscerle?

Delle altre non posso dire, ma se siete curiosi di conoscere il cuore di una strega, fate attenzione, perché sto per aprirvi il mio.


GRANDINE

Io credo che streghe ci si nasca, ma riconoscersi tali nel corso della propria vita è un’impresa ardua.

Sono nata in un pomeriggio d’estate. Quando mia madre entrò in ospedale, con un pancione esagerato anche per una puerpera al nono mese, il medico la canzonò, chiedendole se avesse mangiato troppa anguria. In effetti, quella era un’estate particolarmente calda e lei di anguria ne aveva mangiata parecchia; erano gli anni Settanta, non c’erano condizionatori all’epoca e i modi per trovare refrigerio erano pochi.

I miei vivevano in un grande condominio grigio, accanto alla fabbrica dove lavorava mio padre. Le stanze piccole, la cucina di fòrmica; il terrazzo adiacente a quello dei vicini, le scale buie e il cemento caldo e polveroso: mia madre era una ragazza di campagna e quell’appartamento in cui aveva trascorso la sua prima gravidanza doveva esserle sembrato una prigione.

La sera, però, c’erano i baracchini dove si potevano mangiare le angurie, lungo le strade: le “anguriare” con i tavoli di legno e le panche, e le lampadine tutt’attorno che richiamavano sciami di zanzare. La gente usciva e si rinfrescava così, attorno a un tavolo coperto di plastica che subito diventava appiccicoso di succo rosso e semini neri, accanto alle bacinelle piene d’acqua in cui galleggiavano i frutti verdi e lucidi, grandi da far spalancare gli occhi ai bambini. Tutti si fermavano alle anguriare, d’estate, perché le angurie piacevano a tutti; e mia mamma, sicuro, ne aveva mangiate, sulle panche di legno lungo la strada e sul terrazzo caldo di cemento, per cercare un po’ di ristoro mentre la sua pancia cresceva sempre di più nel caldo soffocante di luglio.

Mentre nascevo, scoppiò un furibondo temporale: uno di quei terribili temporali estivi tanto attesi quanto temuti, che portano refrigerio e flagellano la vegetazione. Era tanto forte che mia madre lo sentì, nonostante i lancinanti dolori del suo primo parto assorbissero in quel momento tutta la sua attenzione; durante la mia infanzia mi raccontò spesso di quel temporale.

Ogni volta che ne arrivava uno e io restavo, atterrita e affascinata, a guardare dalla finestra la pioggia che sferzava gli orti e i tronchi degli alberi piegati dal vento mi diceva: quando sei nata c’era un tempo così.

Tra le antiche rune, ce n’è una che si chiama Hagalaz e si disegna con due aste verticali unite tra loro da una linea obliqua che scende da sinistra verso destra, come una via di mezzo tra una H e una N. Il suo significato è “grandine”. È la runa della creazione e della trasformazione e porta con sé un presagio simile a quelli della Torre e della Morte nei Tarocchi, mescolati insieme: presagi apparentemente funesti per chi non ha confidenza con il simbolismo della Divinazione. La Torre significa “crisi”, in tutte le possibili declinazioni di significato che può assumere questa parola; la carta della Morte indica qualcosa che deve finire per permettere ad altro di iniziare. Hagalaz indica un cambiamento e una rinascita attraverso una crisi; forze incontrollate, ira della natura, la frustrazione che si prova quando si cerca di comprendere qualcosa di più grande di noi, tutti gli ostacoli da superare prima di giungere alla completezza e all’armonia interiore.

E così io nacqui sotto il segno della grandine, che è uno di quei segni che, potendo, non sceglieresti mai. Eppure, nonostante la forza distruttiva che reca con sé, Hagalaz non ha un significato così negativo, poiché la grandine poi si scioglie e diventa acqua che disseta e porta sollievo alla terra riarsa dal troppo sole. Un vecchio detto contadino recita: “Par el seco, xe bona anca la tempesta”, quando c’è siccità ci si accontenta anche della grandine, che poi è pure un modo di constatare come, in varie occasioni della vita, ci si accontenti anche di qualcosa di poco appetibile, piuttosto di niente.

Dopo essere nata, piansi, come fa ogni bambino, e fin qui, tutto normale.

Solo che io continuai a farlo, quasi ininterrottamente, per i due anni successivi.

Piangevo di notte, piangevo di giorno, non dormivo quasi mai, per la disperazione dei miei genitori. Mi portavano dal pediatra per capire cosa avessi, ma senza risultato: pareva proprio che fossi sana come un pesce. Mangiavo e crescevo normalmente, tuttavia non smettevo di piangere. Il pianto rimase una costante nella mia vita per molti anni a venire: per tutta l’infanzia, l’adolescenza e gran parte della mia vita adulta, ho avuto la lacrima facile, tanto che mio padre me lo scrisse perfino su un bigliettino natalizio che accompagnava il mio regalo verso i sei, sette anni:

“Cara, brava e buona,

butta via la lacrimetta

e sarai una bambina

quasi perfetta”

firmato: Babbo Natale

 

Ma io non potevo rinunciare alle mie lacrime, né sarei mai stata la bimba perfetta che mio padre sognava, anche se allora non potevo saperlo, né capirlo. Quella che usciva dai miei occhi era la grandine divenuta acqua, era la pena che provavo verso tutto il dolore e il male del mondo; l’unico dono che avrei mai potuto fare di me, perché quel pomeriggio d’estate, nell’inconsapevolezza di tutti, me compresa, era nata una strega, con il cuore perennemente in tempesta e che avrebbe per sempre detestato le angurie.


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