...
Verde primaverile foglia,
di boschi scuri, chiassosi
intrecci,
rami e voli dentro l’alba
inquieta.
Dolce, violenta stagione,
che in fretta cresci
e presto te ne vai,
e già ci manchi.
Dopo aver lamentato
le troppe piogge,
il troppo vento,
il freddo, il caldo e tutti gli accidenti,
ora ci tedia
la monotona estate,
l’implacabile luce,
i pomeriggi
immobili,
dietro il riparo
di una persiana.
Mentre si attende
l’afa o la grandine
con la medesima ansia
(eppure
con un desiderio
oscuro)
ecco insinuarsi la notte
come una tregua
d’intrecci di voli
radenti
di pipistrelli
nel rosa sottile
tramonto
chiassoso
di grilli.
Mara Bagatella - 22 maggio 2009
...
domenica 31 maggio 2009
venerdì 29 maggio 2009
The love song of J. Alfred Prufrock (parte VIII)
...
And would it have been worth it, after all,
After the cups, the marmalade, the tea,
Among the porcelain, among some talk of you and me,
Would it have been worth while,
To have bitten off the matter with a smile,
To have squeezed the universe into a ball
To roll it towards some overwhelming question,
To say: "I am Lazarus, come from the dead,
Come back to tell you all,
I shall tell you all"--
If one, settling a pillow by her head
Should say: "That is not what I meant at all;
That is not it, at all."
And would it have been worth it, after all,
Would it have been worth while,
After the sunsets and the dooryards and the sprinkled streets,
After the novels, after the teacups, after the skirts that trail along the floor--
And this, and so much more?--
It is impossible to say just what I mean!
But as if a magic lantern threw the nerves in patterns on a screen:
Would it have been worth while
If one, settling a pillow or throwing off a shawl,
And turning toward the window, should say:
"That is not it at all,
That is not what I meant, at all."
. . . . . . . . . . .
E ne sarebbe valsa la pena, dopo tutto,
Dopo le tazze, la marmellata e il tè,
E fra la porcellana e qualche chiacchiera
Fra te e me, ne sarebbe valsa la pena
D'affrontare il problema sorridendo,
Di comprimere tutto l'universo in una palla
E di farlo rotolare verso una domanda che opprime,
Di dire: « lo sono Lazzaro, vengo dal regno dei morti,
Torno per dirvi tutto, vi dirò tutto » -
Se una, mettendole un cuscino accanto al capo,
Dicesse: « Non è per niente questo che volevo dire.
Non è questo, per niente. »
E ne sarebbe valsa la pena, dopo tutto,
Ne sarebbe valsa la pena,
Dopo i tramonti e i cortili e le strade spruzzate di pioggia,
Dopo i romanzi, dopo le tazze da tè, dopo le gonne strascicate sul pavimento
E questo, e tante altre cose? -
E' impossibile dire ciò che intendo!
Ma come se una lanterna magica proiettasse il disegno dei nervi su uno schermo:
Ne sarebbe valsa la pena
Se una, accomodandosi un cuscino o togliendosi uno scialle,
E volgendosi verso la finestra, dicesse:
« Non è per niente questo,
Non è per niente questo che volevo dire. »
. . . . . . . . . . .
Com’è possibile, dopo tutto questo, credere che l'Arte non faccia parte, non sia strettamente legata con la Vita? Non so voi, ma io i sentimenti espressi in questi versi li sperimento quasi tutti i giorni…
È impossibile dire ciò che intendo!
Cosa impedisce alle persone di comunicare tra loro? Com’è possibile, se è vero che, fondamentalmente, gli esseri umani sono simili tra loro, che il cervello umano è strutturato nella stessa maniera in tutti noi? Non me lo sto inventando. Lo dicono gli studiosi di psicologia e di antropologia. Siamo simili, in ogni paese e ad ogni latitudine, eppure non riusciamo a comunicare con chi ci sta accanto.
Lo sto sperimentando in questi giorni: di stare accanto a qualcuno e non riuscire ad affrontare il problema sorridendo… di non riuscire a porla, questa domanda che opprime.
Prufrock si chiede quale senso abbia avuto la sua vita, ed è una domanda che spesso faccio a me stessa. E quando arrivo a pormi questa domanda, allora so che è arrivato il momento di forzare gli eventi fino al punto della crisi, anche se quasi sempre questo significa che la persona accanto a me se la darà a gambe.
I pensieri e i sentimenti, quando sono espressi senza filtri, hanno una forza d’urto difficile da sopportare, come l’acqua che esce all’improvviso da una diga aperta. È una forza sottovalutata dalla maggior parte della gente, per la maggior parte del tempo, compressa, nascosta, svilita… finché un bel giorno il tappo salta, e allora te ne accorgi…
Ma era di questo che volevo parlare?
Non so… forse no. Non è per niente questo che volevo dire.
...
And would it have been worth it, after all,
After the cups, the marmalade, the tea,
Among the porcelain, among some talk of you and me,
Would it have been worth while,
To have bitten off the matter with a smile,
To have squeezed the universe into a ball
To roll it towards some overwhelming question,
To say: "I am Lazarus, come from the dead,
Come back to tell you all,
I shall tell you all"--
If one, settling a pillow by her head
Should say: "That is not what I meant at all;
That is not it, at all."
And would it have been worth it, after all,
Would it have been worth while,
After the sunsets and the dooryards and the sprinkled streets,
After the novels, after the teacups, after the skirts that trail along the floor--
And this, and so much more?--
It is impossible to say just what I mean!
But as if a magic lantern threw the nerves in patterns on a screen:
Would it have been worth while
If one, settling a pillow or throwing off a shawl,
And turning toward the window, should say:
"That is not it at all,
That is not what I meant, at all."
. . . . . . . . . . .
E ne sarebbe valsa la pena, dopo tutto,
Dopo le tazze, la marmellata e il tè,
E fra la porcellana e qualche chiacchiera
Fra te e me, ne sarebbe valsa la pena
D'affrontare il problema sorridendo,
Di comprimere tutto l'universo in una palla
E di farlo rotolare verso una domanda che opprime,
Di dire: « lo sono Lazzaro, vengo dal regno dei morti,
Torno per dirvi tutto, vi dirò tutto » -
Se una, mettendole un cuscino accanto al capo,
Dicesse: « Non è per niente questo che volevo dire.
Non è questo, per niente. »
E ne sarebbe valsa la pena, dopo tutto,
Ne sarebbe valsa la pena,
Dopo i tramonti e i cortili e le strade spruzzate di pioggia,
Dopo i romanzi, dopo le tazze da tè, dopo le gonne strascicate sul pavimento
E questo, e tante altre cose? -
E' impossibile dire ciò che intendo!
Ma come se una lanterna magica proiettasse il disegno dei nervi su uno schermo:
Ne sarebbe valsa la pena
Se una, accomodandosi un cuscino o togliendosi uno scialle,
E volgendosi verso la finestra, dicesse:
« Non è per niente questo,
Non è per niente questo che volevo dire. »
. . . . . . . . . . .
Com’è possibile, dopo tutto questo, credere che l'Arte non faccia parte, non sia strettamente legata con la Vita? Non so voi, ma io i sentimenti espressi in questi versi li sperimento quasi tutti i giorni…
È impossibile dire ciò che intendo!
Cosa impedisce alle persone di comunicare tra loro? Com’è possibile, se è vero che, fondamentalmente, gli esseri umani sono simili tra loro, che il cervello umano è strutturato nella stessa maniera in tutti noi? Non me lo sto inventando. Lo dicono gli studiosi di psicologia e di antropologia. Siamo simili, in ogni paese e ad ogni latitudine, eppure non riusciamo a comunicare con chi ci sta accanto.
Lo sto sperimentando in questi giorni: di stare accanto a qualcuno e non riuscire ad affrontare il problema sorridendo… di non riuscire a porla, questa domanda che opprime.
Prufrock si chiede quale senso abbia avuto la sua vita, ed è una domanda che spesso faccio a me stessa. E quando arrivo a pormi questa domanda, allora so che è arrivato il momento di forzare gli eventi fino al punto della crisi, anche se quasi sempre questo significa che la persona accanto a me se la darà a gambe.
I pensieri e i sentimenti, quando sono espressi senza filtri, hanno una forza d’urto difficile da sopportare, come l’acqua che esce all’improvviso da una diga aperta. È una forza sottovalutata dalla maggior parte della gente, per la maggior parte del tempo, compressa, nascosta, svilita… finché un bel giorno il tappo salta, e allora te ne accorgi…
Ma era di questo che volevo parlare?
Non so… forse no. Non è per niente questo che volevo dire.
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mercoledì 27 maggio 2009
Disse Lucifero...
Disse Lucifero a Belzebù
“Perché non cambi mestiere anche tu?
ero un po’ stufo di anime matte,
mi sono messo a fare pignatte.
Se tu i coperchi sei bravo a fare
Mi servirebbe proprio un compare”
Rispose il diavolo al caro compagno
“Sai, non ci trovo nessun guadagno.
Ma se la cosa non ti disturba
ho una proposta molto più furba!
Con il mio socio, tal Satanasso,
(che con i soldi è proprio un asso)
stiamo cercando finanziatori
per un’impresa con tutti gli onori.
Abbiamo avuto l’idea che vale:
un’Agenzia Matrimoniale”
Maramannara - 2002 (Mara Bagatella)
Questo opera è distribuito con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia.
lunedì 25 maggio 2009
Non così in fretta, vento dell’estate
...
Non così in fretta, vento dell’estate,
senza dirmi se torni o te ne vai:
di tutte le promesse rimandate,
di foglie scompigliate, che ne fai?
Non ci sono più nubi da portare,
nel cielo troppo azzurro e troppo vuoto.
Verso chi corri? Chi devi incontrare?
Vieni da me, che sono come l’onda
morbida e bianca, e ho un cuore da sirena:
e dormo dentro l’acqua più profonda,
che sa cullare e che non porta pena.
Vieni o ritorna… E poi, rimani un poco.
Prenditi queste lacrime salate:
portale via, che non sarà per gioco,
e pioveremo insieme quest’estate.
Mara Bagatella - 22 maggio 2009
...
senza dirmi se torni o te ne vai:
di tutte le promesse rimandate,
di foglie scompigliate, che ne fai?
Non ci sono più nubi da portare,
nel cielo troppo azzurro e troppo vuoto.
Verso chi corri? Chi devi incontrare?
Vieni da me, che sono come l’onda
morbida e bianca, e ho un cuore da sirena:
e dormo dentro l’acqua più profonda,
che sa cullare e che non porta pena.
Vieni o ritorna… E poi, rimani un poco.
Prenditi queste lacrime salate:
portale via, che non sarà per gioco,
e pioveremo insieme quest’estate.
Mara Bagatella - 22 maggio 2009
...
Questo opera è distribuito con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia.
sabato 23 maggio 2009
The love song of J. Alfred Prufrock (parte VII)
And the afternoon, the evening, sleeps so peacefully!
Smoothed by long fingers,
Asleep ... tired ... or it malingers,
Stretched on the floor, here beside you and me.
Should I, after tea and cakes and ices,
Have the strength to force the moment to its crisis?
But though I have wept and fasted, wept and prayed,
Though I have seen my head (grown slightly bald)
brought in upon a platter,
I am no prophet--and here's no great matter;
I have seen the moment of my greatness flicker,
And I have seen the eternal Footman hold my coat, and snicker,
And in short, I was afraid.
E il pomeriggio, la sera, dorme così tranquillamente!
Lisciata da lunghe dita,
Addormentata... stanca... o gioca a fare la malata,
Sdraiata sul pavimento, qui fra te e me.
Potrei, dopo il tè e le paste e i gelati,
Aver la forza di forzare il momento alla sua crisi?
Ma sebbene abbia pianto e digiunato, pianto e pregato,
Sebbene abbia visto il mio capo (che comincia un po' a perdere i capelli)
Portato su un vassoio,
Io non sono un profeta - e non ha molta importanza;
Ho visto vacillare il momento della mia grandezza,
E ho visto l'eterno Lacchè reggere il mio soprabito ghignando,
E a farla breve, ne ho avuto paura.
… e chi non ne avrebbe paura? Della Morte, dico.
Quelli che non ci pensano mai?
Ah, no, quelle sono le persone che la temono di più.
Questa è la parte più difficile da commentare per me, e ci ho dovuto pensare tanto. Eliot cita un profeta, S. Giovanni Battista: per chi non se lo ricorda, è il Precursore, la Voce che grida nel deserto, l’ultimo Profeta dell’Antico Testamento. Fu decapitato da Erode su richiesta di una donna, Salomè.
Un uomo coraggioso, che affrontò la morte per le sue idee.
Prufrock, invece, non è un Profeta, così dice, e la Morte non ha il coraggio nemmeno di nominarla, la chiama “l’eterno Lacchè”, ammettendo senza mezzi termini di averne paura.
Ma non è vero che Prufrock non sia un profeta. Lo è, fin dall’inizio della poesia, fin dalla citazione del XXVII Canto dell’Inferno:
“S'io credesse che mia risposta fosse
A persona che mai tornasse al mondo,
Questa fiamma staria senza più scosse.
Ma perciocché giammai di questa fondo
Non tornò vivo alcun, s'i' odo il vero,
Senza tema d'infamia ti rispondo.”
Eliot era un grande ammiratore e studioso di Dante Alighieri, e questa citazione della Divina Commedia è la chiave per capire il senso dell’intera poesia.
Sono parole di un dannato, Guido di Montefeltro, che Dante Alighieri colloca nel girone dei consiglieri fraudolenti, arso da una fiamma per l’eternità. Interrogato da Dante, Guido gli risponde, ma soltanto perché è convinto di parlare ad un defunto, come lui, uno che non può tornare a riferire nulla nel mondo dei vivi.
La stessa cosa fa Prufrock, che parla, parla, ma a chi? Sembra che parli a se stesso, convinto che a nessuno interessi la sua esperienza di vita, così arida, che nessuno ascolti la sua profezia sussurrata.
Prufrock, infatti, ha paura della Morte perché non ha mai vissuto. La sua vita è stata un susseguirsi di giorni consumati come mozziconi di sigaretta, misurati con cucchiaini da caffè. Nel momento in cui se ne rende conto, pensa che ormai sia troppo tardi per rimediare.
Mentre la sera arriva, stanca, così dolcemente pigra, lui non ha la forza di abbandonare le sue abitudini, di mettersi in crisi… ma questo non ha molta importanza, perché la crisi non chiede il permesso di arrivare, ed è già lì.
E ha trasformato Prufrock in un Profeta, volente o nolente…
Un Profeta che ci sta dicendo: “non fate come me”, ma lo dice piano, borbottando, convinto che, tanto, non lo ascolterà nessuno.
Si può dargli torto?
…
venerdì 22 maggio 2009
Abbinamenti
...
Qualche tempo fa ho piantato la calendula accanto alla mia piantina di alloro. Ci ha messo un pezzo, ma finalmente è fiorita: le vedete quelle macchioline arancione tra il verde?
Sono contenta che le due piante si facciano compagnia, il vaso è così grande e il rametto di alloro mi sembra ancora tanto piccolo… ma crescerà, diventerà un alberello, un giorno, e allora non so se tollererà altre piante attorno a sé. Spero di si… anche perché oggi ho avuto una sorpresa: uno dei rami di alloro che avevo piantato, quello che sembrava morto e non avevo tolto per non disturbare le radici del mio sopravvissuto, ha messo un germoglio, piccolo ma verdissimo.
Ho due piante di alloro, ora… chi se lo aspettava più? Sono contenta di non averlo strappato via, anzi, sembra quasi che la calendula che gli ho messo accanto, anche per nascondere un po’ l’antiestetico ramo secco, gli abbia portato fortuna, l’abbia protetto.
Proprio quando non te lo aspetti più, accade.
Non pensavo di imparare tante cose da qualche vaso su un terrazzo…
...
Qualche tempo fa ho piantato la calendula accanto alla mia piantina di alloro. Ci ha messo un pezzo, ma finalmente è fiorita: le vedete quelle macchioline arancione tra il verde?
Sono contenta che le due piante si facciano compagnia, il vaso è così grande e il rametto di alloro mi sembra ancora tanto piccolo… ma crescerà, diventerà un alberello, un giorno, e allora non so se tollererà altre piante attorno a sé. Spero di si… anche perché oggi ho avuto una sorpresa: uno dei rami di alloro che avevo piantato, quello che sembrava morto e non avevo tolto per non disturbare le radici del mio sopravvissuto, ha messo un germoglio, piccolo ma verdissimo.
Ho due piante di alloro, ora… chi se lo aspettava più? Sono contenta di non averlo strappato via, anzi, sembra quasi che la calendula che gli ho messo accanto, anche per nascondere un po’ l’antiestetico ramo secco, gli abbia portato fortuna, l’abbia protetto.
Proprio quando non te lo aspetti più, accade.
Non pensavo di imparare tante cose da qualche vaso su un terrazzo…
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mercoledì 20 maggio 2009
Dino e Laura Battaglia
Dino Battaglia è stato uno dei più bravi fumettisti che si siano affacciati sulla scena italiana negli anni Sessanta – Settanta. La mia tesi di diploma all’Accademia di Belle Arti è stata su di lui.
Laura Battaglia è una donna deliziosa, tanto leggera e fragile fisicamente, quanto forte di carattere.
Il problema, quando si scrive una tesi, è che bisogna per forza essere oggettivi. Il mio relatore, persona precisa e pignola in maniera inverosimile, tagliava o mi contestava ogni frase che contenesse il minimo accenno di emozione. Sicuramente aveva ragione… infatti è uscita una bella tesi, molto tecnica.
Ma ci sono delle cose che non ho mai potuto dire, su Dino Battaglia e sua moglie Laura, e vorrei raccontarle adesso.
Quando chiamai Laura per chiederle aiuto per la mia tesi, mi invitò a casa sua, nonostante non mi conoscesse e non sapesse nulla di me. La prima volta vi rimasi tre giorni. Dormivo su un divano – letto nella stanza che era stata lo studio di suo marito.
La permanenza in quella stanza mi provocò una serie di emozioni difficili da descrivere: tutto era rimasto come prima che lui morisse, gli strumenti da lavoro erano ancora sul tavolino. Mi mangerei le mani per non aver pensato di scattare nemmeno una fotografia a quella stanza magica.
Dalla finestra filtravano i rumori della città, ed entrava una luce particolare, bianca, soffusa, velata. La luce di Milano.
L’effetto che dava era che lui fosse ancora lì, che non se ne fosse mai andato.
Io penso che ci fosse davvero.
Con Laura riuscimmo a fare un sacco di cose in tre giorni: andammo al cinema, mi portò al Museo, a visitare la Basilica di S. Ambrogio. Erano i posti di Milano che piacevano a Dino Battaglia, in cui loro due andavano a passeggiare nel tempo libero. Mi raccontò della sua famiglia, di come aveva conosciuto il marito, di come lui lavorava. Gli editori gli chiedevano tavole a colori, ma lui non se la sentiva di colorare i suoi disegni, amava troppo il bianco e nero. “Se ne hai voglia, provaci tu”, disse a Laura. Lei, che non aveva mai toccato un pennello prima, imparò ad acquerellare le tavole del marito, diventando la sua principale collaboratrice.
Ma non lo aiutava soltanto in questo; mentre Dino disegnava, Laura gli leggeva i libri, le storie dalle quali sarebbero stati tratti i lavori successivi. Discutevano, si scambiavano opinioni… e Laura cucinava. Aveva fama di ottima cuoca, Laura Battaglia, e quanto fosse meritata, l’ho constatato di persona.
Cucinò cose buonissime, mentre ero là; purtroppo, però aveva l’abitudine di mangiare quando capitava, e di cucinare, non quando aveva fame (pareva non l’avesse mai), ma per il puro piacere di farlo. Io invece ho bisogno di mangiare ad orari precisi e avevo un perenne mal di testa…
Quando vidi le tavole originali di Dino Battaglia, mi venne da piangere. Erano perfette. Non un segno di matita, non una sbavatura, non un ripensamento. Si capiva che il suo era un lavoro lento, certosino. Ma anche inesorabile. Dino Battaglia non era uno che tornava indietro. E non era nemmeno statico nel suo stile. Una volta ricostruita la cronologia delle opere, i progressi saltavano all’occhio, anno dopo anno, tavola dopo tavola.
Mano a mano che ne conoscevo la vita e le abitudini, mi diventava sempre più simpatico: riservato, schivo, casalingo, per nulla amante dei viaggi… rispetto agli artisti che studiavo all’Accademia, tutti “genio e sregolatezza”, sembrava così atipico… e così vicino a me.
Amava il suo lavoro e amava sua moglie. Li aveva amati entrambi così tanto da non avere tempo e spazio per altre passioni. Dentro quella piccola stanza, c’era un universo intero: libri, personaggi, storie, città misteriose, strade labirintiche, donne eteree come fantasmi, nebbie e foreste incantate. Era già tutto lì… dove altro mai avrebbe potuto desiderare recarsi?
Mi sembrava di averlo accanto, che mi spiegava: “Vedi, questo personaggio l’ho disegnato così perché… fa questo gesto, ha quest’espressione… vedi la luce in questa vignetta? Vedi l’inquadratura, la composizione, il segno?”
Invece era Laura.
Lui se n’era andato presto, portato via da un tumore. Riuscivo a sentirne la mancanza, senza averlo mai conosciuto.
Lei, l’ho invidiata, ma non per la fama. I matrimoni tra anime gemelle non sono così comuni: Laura, la sua, l’aveva trovata e, in qualche modo, era ancora lì.
...
Questo opera è distribuito con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia.
lunedì 18 maggio 2009
Gossip
...
Ultimamente mi sono accorta di aver dato un taglio un po’ troppo serioso al blog. Sarà stata colpa di questa primavera così piovosa e malinconica… Da qualche giorno invece, il caldo è arrivato, le siepi sono fiorite all’improvviso, e i miei allievi sono definitivamente entrati nella fase finale dell’anno scolastico, quella in cui non riescono più a stare seduti (se mai prima ci fossero riusciti) né zitti, oppure, se lo fanno, è solamente perché si sono incantati a guardare fuori dalla finestra e chissà a che pensano. Insomma, questa è la stagione in cui io perdo definitivamente la loro attenzione, e, dopo più di dieci anni di insegnamento, ho imparato che è del tutto inutile prendersela con loro: i pollini primaverili hanno muscoli più forti dei miei.
Così ho deciso di lasciarmi trascinare un po’ anch’io da questo turbine di irrequietezza, e, dato che i miei allievi me lo chiedono, ogni tanto, di svelare l’identità del mio fidanzato ufficiale e pubblicarne la foto:
Eccolo qua, contenti? Alberto Angela è il mio uomo ideale… i suoi documentari sono l’unica cosa che veramente mi manca, da quando vivo senza la TV.
Eccolo qua, sul posto di lavoro: dai, è un bell'uomo, bisogna ammetterlo, sia in abbigliamento elegante che sportivo, sta bene in ogni caso... a suo agio nella jungla come in uno studio televisivo! Trovatemene un altro così!
Intelligente, colto, curioso, ecco un uomo con il quale non si rischia di rimanere a corto di argomenti.
Per lui ho (quasi) dimenticato la mia vecchia fiamma:
A Samuele Bersani voglio sempre bene, da qualche giorno mi sto riascoltando tutte le sue canzoni, che hanno la rara particolarità di non stufarmi mai, e di sembrarmi diverse e nuove ogni volta, anche quando le conosco a memoria.
Purtroppo per Samuele, però, mi sono resa conto che in una coppia, un’artista è più che sufficiente… insomma, io basto e avanzo! Senza contare il fatto che i musicisti sono affascinanti, ma del tutto inaffidabili. Insomma, l'ho mollato perchè, tra il Poeta e lo Scienziato, preferisco il secondo, anche se sparisce per mesi, una volta in Mesopotamia, poi nel Perù…
Beh…
Nel frattempo potrei fare un salto a trovare Samuele… dal momento che riesce persino ad andare d’accordo con Minni (la coniglia domestica più selvatica dell'universo)!
...
Ultimamente mi sono accorta di aver dato un taglio un po’ troppo serioso al blog. Sarà stata colpa di questa primavera così piovosa e malinconica… Da qualche giorno invece, il caldo è arrivato, le siepi sono fiorite all’improvviso, e i miei allievi sono definitivamente entrati nella fase finale dell’anno scolastico, quella in cui non riescono più a stare seduti (se mai prima ci fossero riusciti) né zitti, oppure, se lo fanno, è solamente perché si sono incantati a guardare fuori dalla finestra e chissà a che pensano. Insomma, questa è la stagione in cui io perdo definitivamente la loro attenzione, e, dopo più di dieci anni di insegnamento, ho imparato che è del tutto inutile prendersela con loro: i pollini primaverili hanno muscoli più forti dei miei.
Così ho deciso di lasciarmi trascinare un po’ anch’io da questo turbine di irrequietezza, e, dato che i miei allievi me lo chiedono, ogni tanto, di svelare l’identità del mio fidanzato ufficiale e pubblicarne la foto:
Eccolo qua, contenti? Alberto Angela è il mio uomo ideale… i suoi documentari sono l’unica cosa che veramente mi manca, da quando vivo senza la TV.
Eccolo qua, sul posto di lavoro: dai, è un bell'uomo, bisogna ammetterlo, sia in abbigliamento elegante che sportivo, sta bene in ogni caso... a suo agio nella jungla come in uno studio televisivo! Trovatemene un altro così!
Intelligente, colto, curioso, ecco un uomo con il quale non si rischia di rimanere a corto di argomenti.
Per lui ho (quasi) dimenticato la mia vecchia fiamma:
A Samuele Bersani voglio sempre bene, da qualche giorno mi sto riascoltando tutte le sue canzoni, che hanno la rara particolarità di non stufarmi mai, e di sembrarmi diverse e nuove ogni volta, anche quando le conosco a memoria.
Purtroppo per Samuele, però, mi sono resa conto che in una coppia, un’artista è più che sufficiente… insomma, io basto e avanzo! Senza contare il fatto che i musicisti sono affascinanti, ma del tutto inaffidabili. Insomma, l'ho mollato perchè, tra il Poeta e lo Scienziato, preferisco il secondo, anche se sparisce per mesi, una volta in Mesopotamia, poi nel Perù…
Beh…
Nel frattempo potrei fare un salto a trovare Samuele… dal momento che riesce persino ad andare d’accordo con Minni (la coniglia domestica più selvatica dell'universo)!
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domenica 17 maggio 2009
sabato 16 maggio 2009
Caprifoglio
...
Rampicante, selvatico, infestante. Questo è il mio fiore preferito. A casa dei miei genitori ce n’è una siepe folta, abbarbicata sulla rete di confine con il giardino dei vicini. Il vento di primavera ne scompiglia i lunghi rami ricoperti di verdi foglie lucenti, come una chioma spettinata.
Mi somiglia, il caprifoglio. È una pianta testarda. La sua bellezza non sta nell’aspetto esteriore, il fiore ha un colore biancastro, che vira al giallo quando invecchia, è piccolo e poco appariscente. Ma il suo profumo, quando sboccia, da maggio a giugno, ha qualcosa di magico.
Penetrante, intenso, riesce a trasmettermi più di ogni altra cosa il messaggio: “l’estate è alle porte!”. Fa venire la voglia di danzare, di muoversi come un’ape, avanti e indietro, apparentemente senza scopo, ma con un intento preciso.
Ogni anno, ne raccolgo a mazzi e lo metto in casa, dentro lunghi vasi dal collo stretto, specialmente in camera da letto. Non so perché, ma mi mette di buon umore, come se il suo profumo avesse la stessa vibrazione della mia anima, quando è felice.
A dire il vero, non è che piaccia a tutti… il mio vicino ha combattuto per anni contro la siepe del caprifoglio. Diceva di non sopportarne l’odore. Ha provato a tagliarlo, ad avvelenarlo. Un anno, ha fatto chiamare degli operai, che hanno ripulito tutta la rete dall’edera e dal caprifoglio, lasciandola nuda e squallida. È stato terribile per me, una primavera tristissima… mia madre per consolarmi comprò una pianta di caprifoglio rosa, da giardino, molto decorativa, ma non aveva profumo, e non mi ci affezionai.
Tuttavia, l’anno successivo, il caprifoglio selvatico era ancora là, abbarbicato sulla rete. Faceva capolino da dietro il muretto, con aria sorniona… e anno dopo anno, è ricresciuto, sempre più folto, sempre più forte… il mio vicino non protesta più. È diventato anziano, e credo non senta più gli odori.
Io non abito più là, ma ci vado spesso, raccolgo i lunghi rami fioriti e me li porto a casa, dove per quasi due mesi, mi regalano la loro fragranza inebriante, pungente e gratuita.
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Nel linguaggio dei fiori, il caprifoglio significa: “Legame d’amore”.
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Rampicante, selvatico, infestante. Questo è il mio fiore preferito. A casa dei miei genitori ce n’è una siepe folta, abbarbicata sulla rete di confine con il giardino dei vicini. Il vento di primavera ne scompiglia i lunghi rami ricoperti di verdi foglie lucenti, come una chioma spettinata.
Mi somiglia, il caprifoglio. È una pianta testarda. La sua bellezza non sta nell’aspetto esteriore, il fiore ha un colore biancastro, che vira al giallo quando invecchia, è piccolo e poco appariscente. Ma il suo profumo, quando sboccia, da maggio a giugno, ha qualcosa di magico.
Penetrante, intenso, riesce a trasmettermi più di ogni altra cosa il messaggio: “l’estate è alle porte!”. Fa venire la voglia di danzare, di muoversi come un’ape, avanti e indietro, apparentemente senza scopo, ma con un intento preciso.
Ogni anno, ne raccolgo a mazzi e lo metto in casa, dentro lunghi vasi dal collo stretto, specialmente in camera da letto. Non so perché, ma mi mette di buon umore, come se il suo profumo avesse la stessa vibrazione della mia anima, quando è felice.
A dire il vero, non è che piaccia a tutti… il mio vicino ha combattuto per anni contro la siepe del caprifoglio. Diceva di non sopportarne l’odore. Ha provato a tagliarlo, ad avvelenarlo. Un anno, ha fatto chiamare degli operai, che hanno ripulito tutta la rete dall’edera e dal caprifoglio, lasciandola nuda e squallida. È stato terribile per me, una primavera tristissima… mia madre per consolarmi comprò una pianta di caprifoglio rosa, da giardino, molto decorativa, ma non aveva profumo, e non mi ci affezionai.
Tuttavia, l’anno successivo, il caprifoglio selvatico era ancora là, abbarbicato sulla rete. Faceva capolino da dietro il muretto, con aria sorniona… e anno dopo anno, è ricresciuto, sempre più folto, sempre più forte… il mio vicino non protesta più. È diventato anziano, e credo non senta più gli odori.
Io non abito più là, ma ci vado spesso, raccolgo i lunghi rami fioriti e me li porto a casa, dove per quasi due mesi, mi regalano la loro fragranza inebriante, pungente e gratuita.
...
Nel linguaggio dei fiori, il caprifoglio significa: “Legame d’amore”.
...
giovedì 14 maggio 2009
martedì 12 maggio 2009
The love song of J. Alfred Prufrock (parte VI)
...
And I have known the arms already, known them all--
Arms that are braceleted and white and bare
(But in the lamplight, downed with light brown hair!)
Is it perfume from a dress
That makes me so digress?
Arms that lie along a table, or wrap about a shawl.
And should I then presume?
And how should I begin?
. . . . . . . . . . . .
Shall I say, I have gone at dusk through narrow streets
And watched the smoke that rises from the pipes
Of lonely men in shirt-sleeves, leaning out of windows? ...
I should have been a pair of ragged claws
Scuttling across the floors of silent seas.
. . . . . . . . . . . . .
E ho già conosciuto le braccia, conosciute tutte -
Le braccia ingioiellate e bianche e nude
(Ma alla luce di una lampada avvilite da una leggera peluria bruna!)
E' il profumo che viene da un vestito
Che mi fa divagare a questo modo?
Braccia appoggiate a un tavolo, o avvolte in uno scialle.
Potrei rischiare, allora?-
Come potrei cominciare?
. . . . . . . . . . . .
Direi, ho camminato al crepuscolo per strade strette
Ed ho osservato il fumo che sale dalle pipe
D'uomini solitari in maniche di camicia affacciati alle finestre?...
Avrei potuto essere un paio di ruvidi artigli
Che corrono sul fondo di mari silenziosi.
. . . . . . . . . . . . .
Ecco un altro paio di versi talmente belli che cercare di farne una parafrasi diventa una specie di peccato mortale… beh, io non lo compirò. Non ve li spiegherò. Tanto la spiegazione non ha alcuna importanza, anzi. Non sto pubblicando la poesia di Eliot a puntate per darvene la spiegazione, basta consultare un’antologia per questo, io lo sto facendo solo per portarla alla vostra attenzione:
I should have been a pair of ragged claws
Scuttling across the floors of silent seas.
“Avrei potuto essere un paio di ruvidi artigli
Che corrono sul fondo di mari silenziosi.”
Leggeteli di nuovo, e ancora, finché il suono delle parole non vi risuonerà dentro come bronzo. Sentite qualcosa? Lo sentite?
Non so a voi, a me fanno venire in mente un colore: verde – acqua – scuro. Quello che esce mescolando il blu primario con una punta di verde. Il mio preferito. E poi… la sensazione di essere roccia sommersa, e di sentire le zampe dure e leggere del granchio che si muovono su di me. Un cuore di roccia sommersa, ma con qualcosa di vivo, attento e vigile…
...
And I have known the arms already, known them all--
Arms that are braceleted and white and bare
(But in the lamplight, downed with light brown hair!)
Is it perfume from a dress
That makes me so digress?
Arms that lie along a table, or wrap about a shawl.
And should I then presume?
And how should I begin?
. . . . . . . . . . . .
Shall I say, I have gone at dusk through narrow streets
And watched the smoke that rises from the pipes
Of lonely men in shirt-sleeves, leaning out of windows? ...
I should have been a pair of ragged claws
Scuttling across the floors of silent seas.
. . . . . . . . . . . . .
E ho già conosciuto le braccia, conosciute tutte -
Le braccia ingioiellate e bianche e nude
(Ma alla luce di una lampada avvilite da una leggera peluria bruna!)
E' il profumo che viene da un vestito
Che mi fa divagare a questo modo?
Braccia appoggiate a un tavolo, o avvolte in uno scialle.
Potrei rischiare, allora?-
Come potrei cominciare?
. . . . . . . . . . . .
Direi, ho camminato al crepuscolo per strade strette
Ed ho osservato il fumo che sale dalle pipe
D'uomini solitari in maniche di camicia affacciati alle finestre?...
Avrei potuto essere un paio di ruvidi artigli
Che corrono sul fondo di mari silenziosi.
. . . . . . . . . . . . .
Ecco un altro paio di versi talmente belli che cercare di farne una parafrasi diventa una specie di peccato mortale… beh, io non lo compirò. Non ve li spiegherò. Tanto la spiegazione non ha alcuna importanza, anzi. Non sto pubblicando la poesia di Eliot a puntate per darvene la spiegazione, basta consultare un’antologia per questo, io lo sto facendo solo per portarla alla vostra attenzione:
I should have been a pair of ragged claws
Scuttling across the floors of silent seas.
“Avrei potuto essere un paio di ruvidi artigli
Che corrono sul fondo di mari silenziosi.”
Leggeteli di nuovo, e ancora, finché il suono delle parole non vi risuonerà dentro come bronzo. Sentite qualcosa? Lo sentite?
Non so a voi, a me fanno venire in mente un colore: verde – acqua – scuro. Quello che esce mescolando il blu primario con una punta di verde. Il mio preferito. E poi… la sensazione di essere roccia sommersa, e di sentire le zampe dure e leggere del granchio che si muovono su di me. Un cuore di roccia sommersa, ma con qualcosa di vivo, attento e vigile…
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domenica 10 maggio 2009
Paolo e la luna
...
Era una limpida sera di fine estate, mio nipote Paolo aveva appena due anni. Sul terrazzo della casa dei nonni, in punta di piedi, le manine protese verso il profondo blu del cielo, stava per fare un’importante scoperta.
Nell’aria così chiara, il disco della luna risplendeva così netto, da sembrare appeso a un filo, proprio sopra la sua testa.
“Prendimela, zia!”
Uscii sul terrazzo, accanto a lui, stupita del fatto che l’avesse chiesto proprio a me, non al nonno, alla nonna, ai genitori. Eravamo tutti lì.
“Non posso, Paolo, non te la posso prendere, la luna.”
“Perché?”
“Perché non ci arrivo nemmeno io, vedi?”
E mi alzai in punta di piedi accanto a lui, con le mani protese.
“È troppo lontana… dai, proviamo insieme.” Lo presi in braccio, sollevandolo più che potevo. Paolo allungò di nuovo le piccole dita verso il disco lucente. Poi abbassò le braccia, rassegnato. Non disse una parola, e non mi chiese mai più di prendergli la luna.
Non sono certo il tipo di zia che vizia i nipotini. Eppure mi si strinse il cuore, quella sera, a dover dire a Paolo che ci sono cose a cui non si può arrivare, a cui si deve rinunciare… quanto avrei voluto prendergliela, la luna! Amore mio, chissà che avrai pensato, a due anni, di com’è starsene sul terrazzo, a desiderare la luna, e non poterci arrivare.
Perché non hai chiamato il tuo papà? Ad insegnarti questa cosa, avrei voluto non essere io.
...
Era una limpida sera di fine estate, mio nipote Paolo aveva appena due anni. Sul terrazzo della casa dei nonni, in punta di piedi, le manine protese verso il profondo blu del cielo, stava per fare un’importante scoperta.
Nell’aria così chiara, il disco della luna risplendeva così netto, da sembrare appeso a un filo, proprio sopra la sua testa.
“Prendimela, zia!”
Uscii sul terrazzo, accanto a lui, stupita del fatto che l’avesse chiesto proprio a me, non al nonno, alla nonna, ai genitori. Eravamo tutti lì.
“Non posso, Paolo, non te la posso prendere, la luna.”
“Perché?”
“Perché non ci arrivo nemmeno io, vedi?”
E mi alzai in punta di piedi accanto a lui, con le mani protese.
“È troppo lontana… dai, proviamo insieme.” Lo presi in braccio, sollevandolo più che potevo. Paolo allungò di nuovo le piccole dita verso il disco lucente. Poi abbassò le braccia, rassegnato. Non disse una parola, e non mi chiese mai più di prendergli la luna.
Non sono certo il tipo di zia che vizia i nipotini. Eppure mi si strinse il cuore, quella sera, a dover dire a Paolo che ci sono cose a cui non si può arrivare, a cui si deve rinunciare… quanto avrei voluto prendergliela, la luna! Amore mio, chissà che avrai pensato, a due anni, di com’è starsene sul terrazzo, a desiderare la luna, e non poterci arrivare.
Perché non hai chiamato il tuo papà? Ad insegnarti questa cosa, avrei voluto non essere io.
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venerdì 8 maggio 2009
Baratto
...
Quando siamo diventate amiche, tu avevi diciassette anni, io ventidue, e mi sembrava di essere tanto più vecchia di te… che presunzione sciocca! Ci siamo scritte tante di quelle lettere! Ti ricordi?
Io mi ricordo di come eri tu: un’adolescente ribelle, testarda, in crisi, arrabbiata per la maggior parte del tempo, ma piena di sogni e di speranze. Avevi un carattere poco comune: sensibile, contorta, incompresa… o era l’età?
Ma noi due ci capivamo, vedevamo l’una nell’altra la stessa forza e la stessa fragilità. Ci raccontavamo delle nostre delusioni, delle nostre paure, i rapporti tesi con i genitori, gli amori non ricambiati, le lacrime, l’ansia… eppure quanto abbiamo riso insieme!
E delle stesse cose: delle delusioni, delle paure, dei nostri genitori, degli amori non ricambiati, delle lacrime e dell’ansia. Tu eri un fiore selvatico che sbocciava, che non riusciva a vedere la propria bellezza, ma aveva l’intelligenza di prendere i propri difetti con ironia. E anche i miei. Per entrambe era un periodo difficile, e la nostra amicizia era un raggio di sole nel buio.
Poi hai deciso di finirla lì. Come se tutto fosse stato soltanto un esperimento. Ed io ti ho lasciata andare senza proteste, perché sapevo bene che quando decidevi una cosa, era quella. Ci siamo spartite le lettere, metà per una. Le mie le ho legate con un nastro rosso e messe in fondo a un cassetto.
…
E poi ti ho rivista, un mese fa.
“Ciao, Mara! Come stai? Da quanto tempo non ci vediamo!”
Se non mi avessi salutata, non ti avrei riconosciuta. Sposata, tre figli, ingrassata… ma non è stato per l’aspetto fisico… qualcosa nel tono cortese e stereotipato della tua voce mi ha dato i brividi. Dove è finita la ragazza dalla lingua tagliente, dai giudizi lucidi e impietosi, che non accettava compromessi?
Quella che avevo davanti era una signora perbene, normale, inquadrata nel proprio ruolo. E non ci sarebbe stato nulla di male se io non avessi saputo com’eri davvero, tu.
Ho balbettato una risposta qualunque, con tono acido, non mi sono comportata in modo educato, lo so. Quasi automaticamente, entrambe ci siamo spostate verso gli angoli opposti del negozio; hai sentito anche tu quello che ho sentito io? Quel dolore sordo e insistente che da ragazza ti diceva: “sei viva”? hai rivisto quella che eri e che amavo e che porto sempre con me?
Ho fatto le mie compere e me ne sono andata, salutando in fretta, chiedendomi quando, e in cambio di che cosa, avevi barattato il fuoco che era dentro di te.
...
Quando siamo diventate amiche, tu avevi diciassette anni, io ventidue, e mi sembrava di essere tanto più vecchia di te… che presunzione sciocca! Ci siamo scritte tante di quelle lettere! Ti ricordi?
Io mi ricordo di come eri tu: un’adolescente ribelle, testarda, in crisi, arrabbiata per la maggior parte del tempo, ma piena di sogni e di speranze. Avevi un carattere poco comune: sensibile, contorta, incompresa… o era l’età?
Ma noi due ci capivamo, vedevamo l’una nell’altra la stessa forza e la stessa fragilità. Ci raccontavamo delle nostre delusioni, delle nostre paure, i rapporti tesi con i genitori, gli amori non ricambiati, le lacrime, l’ansia… eppure quanto abbiamo riso insieme!
E delle stesse cose: delle delusioni, delle paure, dei nostri genitori, degli amori non ricambiati, delle lacrime e dell’ansia. Tu eri un fiore selvatico che sbocciava, che non riusciva a vedere la propria bellezza, ma aveva l’intelligenza di prendere i propri difetti con ironia. E anche i miei. Per entrambe era un periodo difficile, e la nostra amicizia era un raggio di sole nel buio.
Poi hai deciso di finirla lì. Come se tutto fosse stato soltanto un esperimento. Ed io ti ho lasciata andare senza proteste, perché sapevo bene che quando decidevi una cosa, era quella. Ci siamo spartite le lettere, metà per una. Le mie le ho legate con un nastro rosso e messe in fondo a un cassetto.
…
E poi ti ho rivista, un mese fa.
“Ciao, Mara! Come stai? Da quanto tempo non ci vediamo!”
Se non mi avessi salutata, non ti avrei riconosciuta. Sposata, tre figli, ingrassata… ma non è stato per l’aspetto fisico… qualcosa nel tono cortese e stereotipato della tua voce mi ha dato i brividi. Dove è finita la ragazza dalla lingua tagliente, dai giudizi lucidi e impietosi, che non accettava compromessi?
Quella che avevo davanti era una signora perbene, normale, inquadrata nel proprio ruolo. E non ci sarebbe stato nulla di male se io non avessi saputo com’eri davvero, tu.
Ho balbettato una risposta qualunque, con tono acido, non mi sono comportata in modo educato, lo so. Quasi automaticamente, entrambe ci siamo spostate verso gli angoli opposti del negozio; hai sentito anche tu quello che ho sentito io? Quel dolore sordo e insistente che da ragazza ti diceva: “sei viva”? hai rivisto quella che eri e che amavo e che porto sempre con me?
Ho fatto le mie compere e me ne sono andata, salutando in fretta, chiedendomi quando, e in cambio di che cosa, avevi barattato il fuoco che era dentro di te.
...
mercoledì 6 maggio 2009
The love song of J. Alfred Prufrock (parte V)
...
For I have known them all already, known them all:
Have known the evenings, mornings, afternoons,
I have measured out my life with coffee spoons;
I know the voices dying with a dying fall
Beneath the music from a farther room.
So how should I presume?
And I have known the eyes already, known them all--
The eyes that fix you in a formulated phrase,
And when I am formulated, sprawling on a pin,
When I am pinned and wriggling on the wall,
Then how should I begin
To spit out all the butt-ends of my days and ways?
And how should I presume?
Perché già tutte le ho conosciute, conosciute tutte: -
Ho conosciuto le sere, le mattine, i pomeriggi,
Ho misurato la mia vita con cucchiaini da caffè;
Conosco le voci che muoiono con un morente declino
Sotto la musica giunta da una stanza più lontana.
Così, come potrei rischiare?
E ho conosciuto tutti gli occhi, conosciuti tutti -
Gli occhi che ti fissano in una frase formulata,
E quando sono formulato, appuntato a uno spillo,
Quando sono trafitto da uno spillo e mi dibatto sul muro
Come potrei allora cominciare
A sputar fuori tutti i mozziconi dei miei giorni e delle mie abitudini?
Come potrei rischiare?
Quando a scuola ti fanno studiare le poesie, gli insegnanti si dimenticano di dirti che la poesia ha un potere, recondito, nascosto. Il potere di portarti “di là”, di svelare le cose sepolte in profondità, di mostrare la realtà in un modo diverso, ma vero, a volte più vero di quello che abbiamo tutti i giorni davanti al naso.
È lo stesso potere delle fiabe, dei quadri dei grandi pittori, dell’Arte più in generale.
Ma se tu vuoi vedere con gli occhi della Poesia, se vuoi sentire con le sue orecchie, non devi perderti nelle note a piè di pagina delle antologie. Non devi fissarti nei numeri e nelle date della vita degli autori, nei riassunti e nelle parafrasi. Perché quelli sono strumenti, mezzi, non il fine. Il fine è la Poesia stessa, e il suo messaggio non si può imparare a memoria.
È come trafiggere la farfalla sullo spillo…
...
For I have known them all already, known them all:
Have known the evenings, mornings, afternoons,
I have measured out my life with coffee spoons;
I know the voices dying with a dying fall
Beneath the music from a farther room.
So how should I presume?
And I have known the eyes already, known them all--
The eyes that fix you in a formulated phrase,
And when I am formulated, sprawling on a pin,
When I am pinned and wriggling on the wall,
Then how should I begin
To spit out all the butt-ends of my days and ways?
And how should I presume?
Perché già tutte le ho conosciute, conosciute tutte: -
Ho conosciuto le sere, le mattine, i pomeriggi,
Ho misurato la mia vita con cucchiaini da caffè;
Conosco le voci che muoiono con un morente declino
Sotto la musica giunta da una stanza più lontana.
Così, come potrei rischiare?
E ho conosciuto tutti gli occhi, conosciuti tutti -
Gli occhi che ti fissano in una frase formulata,
E quando sono formulato, appuntato a uno spillo,
Quando sono trafitto da uno spillo e mi dibatto sul muro
Come potrei allora cominciare
A sputar fuori tutti i mozziconi dei miei giorni e delle mie abitudini?
Come potrei rischiare?
Quando a scuola ti fanno studiare le poesie, gli insegnanti si dimenticano di dirti che la poesia ha un potere, recondito, nascosto. Il potere di portarti “di là”, di svelare le cose sepolte in profondità, di mostrare la realtà in un modo diverso, ma vero, a volte più vero di quello che abbiamo tutti i giorni davanti al naso.
È lo stesso potere delle fiabe, dei quadri dei grandi pittori, dell’Arte più in generale.
Ma se tu vuoi vedere con gli occhi della Poesia, se vuoi sentire con le sue orecchie, non devi perderti nelle note a piè di pagina delle antologie. Non devi fissarti nei numeri e nelle date della vita degli autori, nei riassunti e nelle parafrasi. Perché quelli sono strumenti, mezzi, non il fine. Il fine è la Poesia stessa, e il suo messaggio non si può imparare a memoria.
È come trafiggere la farfalla sullo spillo…
...
lunedì 4 maggio 2009
Dal profondo – 3 (postfazione)
...
Non voglio essere sola.
Ma non voglio nemmeno
amarti proprio adesso
che vedo il vuoto
spalancarsi
avanti a me.
Eppure è nel deserto
che si cerca l’acqua.
Eppure è adesso
che sono assetata.
Eppure sei tu
che stai seduto sul pozzo.
Non voglio che l’amore sia un bisogno.
Ma lo è:
e questo è tutto.
Mara Bagatella - 8 luglio 2008
Questo opera è distribuito con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia.
Non so perché l’ho tenuta per ultima… questa poesia richiama la figura della Samaritana al pozzo. Ecco una donna che mi ha sempre incuriosita: una che se ne va a prendere l’acqua e chissà quante altre volte lo ha già fatto… chissà a che pensa durante il tragitto. A tante cose, come faccio io quando vado a scuola in macchina, ed è un percorso sempre uguale, tutti i giorni, perciò nel frattempo che vai pensi a tutte quelle cose a cui non hai tempo di pensare durante la giornata.
Ma poi, all’improvviso, ti rendi conto che quello lì, non è un giorno come gli altri. C’è qualcuno seduto sul pozzo. Non sai ancora chi è, eppure qualcosa ti dice che la tua vita sta per cambiare. I cambiamenti della vita non sono tutti uguali. Ci sono quelli lenti, sofferti, cercati, sudati.
E poi ci sono quelli bruschi, improvvisi, quelli che non ti aspettavi.
Quelli che non vuoi.
Ma forse, in fondo, volevi anche quelli, e non lo sapevi… in fondo, in fondo al pozzo.
...
Non voglio essere sola.
Ma non voglio nemmeno
amarti proprio adesso
che vedo il vuoto
spalancarsi
avanti a me.
Eppure è nel deserto
che si cerca l’acqua.
Eppure è adesso
che sono assetata.
Eppure sei tu
che stai seduto sul pozzo.
Non voglio che l’amore sia un bisogno.
Ma lo è:
e questo è tutto.
Mara Bagatella - 8 luglio 2008
Questo opera è distribuito con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia.
Non so perché l’ho tenuta per ultima… questa poesia richiama la figura della Samaritana al pozzo. Ecco una donna che mi ha sempre incuriosita: una che se ne va a prendere l’acqua e chissà quante altre volte lo ha già fatto… chissà a che pensa durante il tragitto. A tante cose, come faccio io quando vado a scuola in macchina, ed è un percorso sempre uguale, tutti i giorni, perciò nel frattempo che vai pensi a tutte quelle cose a cui non hai tempo di pensare durante la giornata.
Ma poi, all’improvviso, ti rendi conto che quello lì, non è un giorno come gli altri. C’è qualcuno seduto sul pozzo. Non sai ancora chi è, eppure qualcosa ti dice che la tua vita sta per cambiare. I cambiamenti della vita non sono tutti uguali. Ci sono quelli lenti, sofferti, cercati, sudati.
E poi ci sono quelli bruschi, improvvisi, quelli che non ti aspettavi.
Quelli che non vuoi.
Ma forse, in fondo, volevi anche quelli, e non lo sapevi… in fondo, in fondo al pozzo.
...
sabato 2 maggio 2009
The love song of J. Alfred Prufrock (parte IV)
...
And indeed there will be time
To wonder, "Do I dare?" and, "Do I dare?"
Time to turn back and descend the stair,
With a bald spot in the middle of my hair--
(They will say: 'How his hair is growing thin!")
My morning coat, my collar mounting firmly to the chin,
My necktie rich and modest, but asserted by a simple pin--
(They will say: "But how his arms and legs are thin!")
Do I dare
Disturb the universe?
In a minute there is time
For decisions and revisions which a minute will reverse.
E di sicuro ci sarà tempo
Di chiedere, « Posso osare? » e, « Posso osare? »
Tempo di volgere il capo e scendere la scala,
Con una zona calva in mezzo ai miei capelli -
(Diranno: « Come diventano radi i suoi capelli! »)
Con il mio abito per la mattina, con il colletto solido che arriva fino al mento,
Con la cravatta ricca e modesta, ma asserita da un semplice spillo -
(Diranno: « Come gli sono diventate sottili le gambe e le braccia!»)
Oserò
Turbare l'universo?
In un attimo solo c'è tempo
Per decisioni e revisioni che un attimo solo invertirà.
Osare è una delle cose che tutto sommato mi riescono. La verità è che sono molto più timida di quanto sembri, tuttavia ci sono dei momenti in cui forzo me stessa e mi lancio in avventure di cui magari poi mi pento… eppure ho sempre pensato che mi pentirei molto di più a non provarci.
Mi sono chiesta molte volte se Prufrock e Eliot siano o no la stessa persona, se il poeta fosse davvero una persona tanto indecisa e paurosa oppure se sia riuscito a calarsi tanto bene nei panni di un uomo qualunque grazie all’arte e all’immaginazione. Certi stati d’animo sono così universalmente umani… tutti arrivano a comprenderli perché tutti li proviamo, prima o poi. È capitato a tutti di prendere solenni decisioni per poi smentirsi un attimo dopo. Ed è capitato di sentirsi osservati e fuori luogo, nonostante i tentativi di assumere un aspetto adeguato alle circostanze. Mi ricordo del primo ricevimento genitori che feci da insegnante: misi la giacca e la camicetta, abiti eleganti che mi stavano malissimo, per cercare di camuffare il mio aspetto da bambina. Ho sempre dimostrato un’età inferiore a quella che in effetti ho, ma nei miei primi anni di insegnamento, questa cosa assumeva dei contorni surreali: ho delle foto in cui non mi si distingue dai miei allievi tredicenni, e ciò mi creava non pochi problemi nella gestione della classe e nei rapporti con i genitori.
L’idea di dover invecchiare, ti sfiora soltanto, fino ad una certa età. Poi cominci a pensarci, e magari la cosa ti angoscia. Per me, che fino all’altro giorno avevo l’aspetto esteriore di una ragazzina, è stato come sbattere il naso su un muro all’improvviso.
Però mi ha svegliata…
...
And indeed there will be time
To wonder, "Do I dare?" and, "Do I dare?"
Time to turn back and descend the stair,
With a bald spot in the middle of my hair--
(They will say: 'How his hair is growing thin!")
My morning coat, my collar mounting firmly to the chin,
My necktie rich and modest, but asserted by a simple pin--
(They will say: "But how his arms and legs are thin!")
Do I dare
Disturb the universe?
In a minute there is time
For decisions and revisions which a minute will reverse.
E di sicuro ci sarà tempo
Di chiedere, « Posso osare? » e, « Posso osare? »
Tempo di volgere il capo e scendere la scala,
Con una zona calva in mezzo ai miei capelli -
(Diranno: « Come diventano radi i suoi capelli! »)
Con il mio abito per la mattina, con il colletto solido che arriva fino al mento,
Con la cravatta ricca e modesta, ma asserita da un semplice spillo -
(Diranno: « Come gli sono diventate sottili le gambe e le braccia!»)
Oserò
Turbare l'universo?
In un attimo solo c'è tempo
Per decisioni e revisioni che un attimo solo invertirà.
Osare è una delle cose che tutto sommato mi riescono. La verità è che sono molto più timida di quanto sembri, tuttavia ci sono dei momenti in cui forzo me stessa e mi lancio in avventure di cui magari poi mi pento… eppure ho sempre pensato che mi pentirei molto di più a non provarci.
Mi sono chiesta molte volte se Prufrock e Eliot siano o no la stessa persona, se il poeta fosse davvero una persona tanto indecisa e paurosa oppure se sia riuscito a calarsi tanto bene nei panni di un uomo qualunque grazie all’arte e all’immaginazione. Certi stati d’animo sono così universalmente umani… tutti arrivano a comprenderli perché tutti li proviamo, prima o poi. È capitato a tutti di prendere solenni decisioni per poi smentirsi un attimo dopo. Ed è capitato di sentirsi osservati e fuori luogo, nonostante i tentativi di assumere un aspetto adeguato alle circostanze. Mi ricordo del primo ricevimento genitori che feci da insegnante: misi la giacca e la camicetta, abiti eleganti che mi stavano malissimo, per cercare di camuffare il mio aspetto da bambina. Ho sempre dimostrato un’età inferiore a quella che in effetti ho, ma nei miei primi anni di insegnamento, questa cosa assumeva dei contorni surreali: ho delle foto in cui non mi si distingue dai miei allievi tredicenni, e ciò mi creava non pochi problemi nella gestione della classe e nei rapporti con i genitori.
L’idea di dover invecchiare, ti sfiora soltanto, fino ad una certa età. Poi cominci a pensarci, e magari la cosa ti angoscia. Per me, che fino all’altro giorno avevo l’aspetto esteriore di una ragazzina, è stato come sbattere il naso su un muro all’improvviso.
Però mi ha svegliata…
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